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8 Novembre 2011

Senza categoria · action blogger · Cima Leitosa · Gian Carlo Grassi. · Marco Blatto · Masso di Nonsferatu · Spazio Bianco sulla Mappa · Uja di Bessanese · Uja di Mondrone · Valle dell'Orco · Valli di Lanzo · Vallone della Leitosa · Vallone di Sea

L’INCERTEZZA DELLA RIUSCITA

Questa notte ho dormito poco: ho pensato alla scalata di oggi da tanto tempo progettata, all’incognito che ci attende su una parete in buona parte ancora inesplorata.
L’incertezza della riuscita fa quest’effetto.

Ma questa calda e anomala mattina di inizio luglio, sembrerebbe essere il momento ideale per tentare di realizzare quanto abbiamo in mente. Il vallone della Leitosa che stiamo risalendo da circa un’ora è un luogo notoriamente freddo, soleggiato soltanto nel primo pomeriggio.

La nostra intenzione, è quella di attaccare la parete nordovest del gigantesco sperone quotato 2667 metri che occupa il terzo vallone di Leitosa, e che costituisce il più robusto contrafforte di questo versante della Cima di Leitosa stessa. Si tratta di una parete verticale e abbastanza compatta, del tutto inviolata in questo settore. Solo più a destra si sviluppa un itinerario del solito Gian Carlo Grassi: “Spazio Bianco sulla Mappa”, la cui prima ripetizione abbiamo fatto l’anno scorso.

Sono state 14 lunghezze impegnative, con una dura fessura finale di 6c e con soli 5 chiodi trovati in parete, ma la salita ci è servita per gettare sguardi indiscreti su questo lato della montagna.

Conosco molto bene in verità il complesso roccioso della Leitosa, dove nell’ultimo decennio ho arrampicato molto ed aperto parecchie vie nuove.

Quest’oggi siamo partiti dal fondo del vallone di Sea con l’imbracatura già indossata e tutto il materiale appeso. L’intenzione è quella di scalare con uno zainetto leggero e recuperare con le maniglie jumar il sacco più grande in cui abbiamo riposto acqua, materiale per eventuale bivacco di fortuna e poco vestiario.A me, che sarò il capocordata della salita, sarà concesso di scalare con il solo materiale. Una volta in sosta recupererò il sacco più grande e, l’amico Luca, salirà poi con lo zainetto più piccolo.

Luca è per me un secondo ideale: abile schiodatore, arrampicatore veloce e ottimo artificialista. E’ inoltre in grado di intuire le mie mosse in parete dalla sua posizione di sosta e gestire la corda in modo ottimale. Insomma, è un compagno che dà grande sicurezza e che testimonia quanto un abile secondo di cordata sia fondamentale quanto un primo, soprattutto in particolari ascensioni.

Sono quasi le otto e stiamo risalendo il faticoso canale detritico che sovrasta il celebre Masso di Nosferatu: lo incide la Fessura Motti, risposta ideale dello scalatore torinese alla ben più celebrata fessura superata dal suo amico Kosterlitz, nell’adiacente Valle dell’Orco.

Giunti sotto il rateau de chevre, il caratteristico passaggio che obbliga a strisciare sotto grandi massi, fatichiamo a passare poiché il materiale appeso all’imbracatura si impiglia un po’ ovunque. Imbocchiamo quindi la cengia rampa sotto la misteriosa Parete del Nano, raggiungiamo il plateau del primo vallone di Leitosa e infine superiamo la base della Cresta della Cittadella, l’ardua fortificazione naturale che divide i due antichi valloni sospesi d’origine glaciale.

Raggiungere la base della cresta nord-nordovest della Cima di Leitosa non è per nulla facile: gli ontani e le valanghe hanno cancellato l’antica traccia un tempo percorsa dai pastori.
Finalmente, l’ultimo e faticoso transito sotto la parete grigia e fredda parete ovest – nordovest, ci apre un angusto passaggio verso il terzo vallone della Leitosa, occupato al centro dal nostro sperone che s’innalza imponente fino alla sommità della cresta sudovest.

Sono solo le 9,30, ma siamo così sudati che dobbiamo immediatamente idratarci a scapito delle nostre scarne riserve d’acqua. Un ultimo sguardo col binocolo mi conferma le preoccupazioni che mi avevano assalito un anno prima. L’ultimo terzo di parete è sbarrato da enormi gradini rovesci e, l’unica possibilità di passaggio per non impelagarsi in lunghi e difficili tratti di artificiale, è rappresentata da una placca verticale, forse addirittura strapiombante in alcuni punti.

C’è da sperare che da questa posizione di osservazione e, data la distanza, non si riesca a vedere la presenza di fessure che ci permetterebbero di salire con le sole protezioni tradizionali di cui disponiamo. Viceversa, la situazione diverrebbe critica.

Le prime tre lunghezze non riservano sorprese ma, la roccia, è meno bella di quanto ci fossimo immaginati. La parete diviene sempre meno articolata e ci conduce giocoforza dentro un diedro già evidente dal basso.
Allestisco alla sua base un punto di fermata su due chiodi e recupero il sacco grande. Ma questo si impiglia sotto una lama sporgente e non c’e verso di smuoverlo. Luca è allora costretto a salire per liberarlo ma, quando arriva all’incirca alla sua altezza, si accorge che questo è incastrato assai più a destra rispetto alla linea di salita. Mi raggiunge allora in sosta e poi, calato da me, scende sulla verticale fino al sacco che raggiunge con un paio di pendolate. Il guaio è alla fine risolto con una perdita di tempo limitata e una risalita sulle corde.

Sono le 11,30, abbiamo scalato molto veloci e siamo oltre metà parete. Vedo già la sezione chiave della salita, cioè la placca verticale e compatta che caratterizza il vertice del grande triangolo. Ma raggiungerne la base è tutt’altro che facile, poiché mi trovo più a destra e sotto una barriera di tetti, inoltre detta placca è difesa da una curiosa e lunga cornice spiovente.
Dopo un paio di azzardati tentativi in arrampicata libera, mi arrendo all’evidenza e inizio una complicata ed assai esposta traversata in A2, che mi obbligherà a usare nell’ultimo tratto un paio di bong di grandi dimensioni.

Arrivo finalmente alla base della placca, mi alzo ancora con un passo di artificiale e, con una mano, riesco a chiodare e ad allestire al meglio una sosta in una fessura semicieca e verticale. Il recupero del sacco comporta un interminabile e pauroso pendolo dello stesso, questa volta però senza conseguenze.

Mentre assicuro Luca che velocemente risolve il tiro sulle staffe, alzo lo sguardo oltre la piccola convessità della placca che mi impedisce una visuale completa e spero che l’esile fessura continui oltre per permettermi di piazzare le protezioni. Riparto fra un misto di curiosità e apprensione e, dopo un passo già abbastanza complesso, esco dalla “pancia” entrando nel cuore della placca verticale.

Ed è allora che mi assale un certo sconforto: vedo con sgomento che non vi sono fessure! Rimango fermo su un gradino sulle punte dei piedi con le mani addossate alla placca che vorrebbe sputarmi all’indietro nel vuoto. Passano quasi cinque minuti e i polpacci mi esplodono per la scomoda posizione, mentre penso alle mosse successive.

Cinque metri di placca panciuta di 6b da fare in arrampicata in discesa mi separano dall’ultimo friend che ho piazzato poco dopo aver lasciato la sosta, precludendomi praticamente la possibilità di ritirarmi. Decido allora di proseguire, sperando nella provvidenza e puntando ad una sporgenza verticale quattro metri più in alto. «Se riesco ad agguantarla in opposizione non la mollo più» penso in silenzio.

Salgo su minuscole tacche altri due metri arenandomi di nuovo contro una zona liscia. Potrei azzardare il passo ma devo assolutamente proteggermi. Scorgo allora un curioso buco nella roccia nerastra, che è in realtà una piccola dilatazione di una crepa.

Sembra abbastanza profondo e potrebbe ospitare un chiodo. Appigliato con la mano sinistra ad una presa pessima e con i piedi messi abbastanza male tento di infilarvi la punta di un chiodo, che poi, in modo un po’ scomposto e con la medesima mano tento di martellare. Ma al secondo colpo questo schizza via come un proiettile e rimbalza più volte sui 250 metri di parete sottostante. Rinuncio ai chiodi ma mi devo sbrigare poiché potrei scivolare da un momento all’altro con un volo poco auspicabile.

Ma ecco che provvidenzialmente mi ricordo di avere appeso al porta – materiale dell’imbracatura anche un ballnut di Luca, un curioso nut meccanico “bifaccia” che ho usato poche volte e che non mi piace per niente. Lo infilo nel buco e noto subito che si piazza saldamente. Non finirò mai di ringraziare Luca per avermelo offerto e cambierò da questo istante idea sulla sua validità, lo giuro!

Rincuorato dalla protezione, mi riassetto in posizione e tento una difficile pinzata di dita su delle piccole tacche molto distanti e con i piedi solo in appoggio. Mi alzo tra una smorfia e un grido strozzato di fatica mentre punto alla sporgenza verticale ormai quasi a portata di braccio. Trattengo il respiro e apro una bracciata verso destra. Presa! Immediatamente accoppio le mani sulla sporgenza mentre con il piede destro piazzato in una concavità cerco di assorbire al meglio lo sbilanciamento. Ancora un attimo di tensione, e poi anche i piedi si pareggiano donandomi una posizione stabile. Salgo rapidamente poco più di un metro e, un gradino netto che afferro con la mano destra, mi dice che il peggio è passato. Rimonto facilmente gli ultimi metri della placca riuscendo addirittura a piazzare un friend e poi allestisco un’ottima sosta su di una piccola cengia detritica.

Mentre recupero Luca, guardo soddisfatto verso il basso la chiave della salita appena superata: 18 metri con difficoltà di 6b+ e 6c continue, due friend e un ballnut di protezione. I tre tiri che seguono non riservano sorprese, tranne una lama gigantesca che afferro in traversata dopo un diedro e che noto con sgomento essere completamente staccata e appoggiata alla parete. Alle 15, 30 esco al vertice del triangolo e dalle difficoltà dopo 400 metri. Abbiamo lasciato in parete solo due chiodi.

Scorgo l’ometto che avevo rinforzato l’anno precedente e che mi dice che mi sono ricollegato all’uscita di “Spazio bianco sulla mappa”. Ci aspettano ora facili ma insidiose lunghezze sulla cresta che ci condurranno sulla selletta appena sotto la vetta.
Guardo l’altimetro: siamo a quota 2667 metri.

Tolgo le scarpette e infilo le scarpe da avvicinamento per arrampicare, poiché le difficoltà non superano ormai il 5b.
Occorre tuttavia prestare attenzione alla roccia poco solida, ai tratti esposti ed insidiosi. Ma l’itinerario, in questo già noto, è per noi come un libro aperto, tant’è che già alle 16, 40 siamo in vetta a 2870 metri di quota, con uno splendido sole che ci illumina e ci riscalda.
Abbiamo arrampicato per oltre 500 metri, merce rara nelle nostre valli e, cosa più importante, siamo passati in apertura su difficoltà abbastanza elevate per questo tipo di terreno solo con attrezzatura tradizionale.

E’ questo il modo di arrampicare in montagna che più ci piace, sapendo leggere la montagna e individuandone i punti deboli, in barba a chi a poca distanza da qui si permette maldestramente di attrezzare le soste con gli spit e le catene sulla parete nord dell’Uja di Mondrone e perfino sul classicissimo “Spigolo Murari” all’Uja di Bessanese.

Mentre percorriamo verso nord la cresta, in direzione della Cima settentrionale di Leitosa, getto uno sguardo sui due versanti: quello più dolce e meno difficile della Valle di Ala e quello dominato dal baratro sul Vallone di Sea.

Fortunatamente ho buona memoria fotografica e individuo la Via Altavilla – Vittoni che sale dal secondo Vallone di Leitosa: l’ho già utilizzata un paio di volte in discesa, è rapida e veloce, con facili rocce di II e III° grado.

In circa due ore siamo sugli sfasciumi alla base della parete nord e ci portiamo sul filo dell’antica morena laterale del secondo Vallone di Leitosa, ora parzialmente vegetata. Sono le 19,30, e l’imbrunire incombe sul Vallone di Sea, tuttavia non mi preoccupo: da questo punto potrei scendere in qualsiasi condizione, anche senza la pila frontale.

Lottando con gli ontani scendiamo nel marcato canalone valanghivo che sovrasta la Parete degli Hobbit e lo Specchio di Iside. Da qui sarei tentato di puntare in direzione dello Specchio e calarmi direttamente da una delle tante linee che non avrei difficoltà a reperire. Ma l’alneto è troppo fitto, per cui risaliamo a ritroso lungo l’itinerario percorso la mattina.

E’ ormai notte quando raggiungiamo il Masso di Nosferatu. Siamo stanchi e affamati.
E’ però in quel momento che Luca propone l’estrema follia di una giornata visionaria: non scendere assolutamente a valle se prima non avremo salito la celebre fessura Motti alla luce dei frontalini. Non so per quale motivo accetto, lasciando però dopo una giornata da capocordata l’onore a lui di salirla dal basso piazzando le protezioni. In breve, Luca, che mostra ancora una freschezza non comune, risolve i fatidici 15 metri e recupera il sottoscritto stanco e per nulla pentito della cortesia concessa all’amico sul “semplice” 6a.

Un gioioso pediluvio durante il guado dello Stura di Sea, effettuato nella totale oscurità, segna la fine di questa nuova avventura. Sono le ore 22,15. La riuscita è ormai più che una semplice certezza.

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