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17 Gennaio 2011

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Marco Blatto… Da Motti e Grassi al trad ed il futuro

Il 2011 è iniziato oramai da qualche settimana e Mountain Blog non può certo rimanere indietro con i tempi. Oggi vogliamo rilanciare in puntualità ed attenzione proponendovi un personaggio noto nel mondo della montagna, una firma ed una garanzia: Marco Blatto.

Nato a Torino ne 1965, residente a Cantoira nella Val Grande di Lanzo, Marco è un forte alpinista ed eccellente scrittore e professionista in ambito letterario e montano, non a caso Accademico del GISM e membro dell’Alpine Club. Nella sua vita ha collezionato esperienze di ogni sorta e tutto ciò gli ha permesso di diventare ad oggi il punto di riferimento oggettivo che rappresenta per molti.

Sei uno scrittore di montagna Accademico del GISM: che significa?

Il GISM [Gruppo Italiano Scrittori di Montagna n.d.a.], a ottant’anni dalla sua fondazione, può ancora rappresentare una voce autorevole in materia di cultura alpina e, soprattutto nell’alpinismo. Il fatto che il GISM, nato come una sorta di contro – altare del CAAI, abbia però a differenza di questo mantenuto una condizione di autonomia assoluta dal Club Alpino Italiano, consente a mio parere un’autorità unica nel panorama associazionistico, condivisa solo da poche altre associazioni legate al mondo della montagna. È importante che tale autonomia rimanga, pur dialogando e collaborando, com’è ovvio con altre realtà.

Quali sono i tuoi impegni a riguardo?

Dal 2007 sono delegato del GISM per il Piemonte e la Valle d’Aosta, e da allora cerco di rendere visibile l’immagine e le finalità del nostro sodalizio in ogni appuntamento di rilievo per l’alpinismo e per la cultura alpina. Se ti riferisci in senso stretto alle “questioni” interne, cercherò d’adoperarmi affinché gli ideali storici del gruppo si adeguino sempre di più alle problematiche concrete dell’alpinismo odierno, che sono ben diverse rispetto a quelle di anche solo vent’anni fa. È importante che il GISM sappia abbandonare alcuni reducismi e “nostalgismi” che mi paiono oggi un po’ demodè e talvolta addirittura inadeguati rispetto ai veri problemi dell’etica alpinistica odierna.

Dell’alpinismo, occorre saperne cogliere appieno le pieghe attuali, in cui inserire un discorso se vuoi sì “ideale”, ma per forza di cose decisamente più “laico” rispetto a quello spesso proposto in passato. Oggi insomma, mi sembra ovvio, occorre consolidare anche un “sentimento della meta” oltre che “un sentimento della vetta”. Se non si capisce questo, perderemo l’opportunità di far breccia in modo “ideale” nelle nuove generazioni, alle quali occorre invece far comprendere che molto vi è al di là dello “sport” o del mito del “grado”. Il gruppo viceversa rischierebbe di “arrotolarsi” su sé stesso. Tuttavia vedo forze nuove all’interno del GISM, giovani con cui si dovrà per forza di cose assolutamente dialogare.

Sei anche membro dell’Alpine Club: che cosa significa?

Significa essere membro del primo club alpino della storia, un club che ha mantenuto il suo carattere elitario originale nei suoi 150 anni di vita, (non va confuso con il BMC che oggi è l’equivalente del nostro club alpino), ma, soprattutto e cosa rara, ha mantenuto intatto lo spirito dei suoi padri fondatori e cioè esplorazione e divulgazione. Il club regola ancora oggi l’ammissione in modo assai severo e, se non si possiedono i requisiti alpinistici necessari, vi è un periodo da passare in qualità “d’aspirante”. Devo dirti però che, a differenza di quanto la sua storia potrebbe indurre a pensare, si tratta di un club ricco persone gioviali, disponibili, nonostante vi gravitino personaggi di primissimo piano in campo alpinistico. È un club inoltre “internazionale”, perché accoglie nelle sue fila alpinisti di tutto il mondo. L’Alpine Club promuove meeting d’alpinismo di altissimo livello in tutto il pianeta, spedizioni extraeuropee, partecipa in prima persona al prestigioso premio d’alpinismo “Piolet d’Or”.

Come hai fatto a diventarne membro?

Ero impegnato in una campagna negli Ecrins nell’estate del 2007 e, mentre tornavo dall’apertura di una via nuova alla Momie, ho incontrato un gruppo di AC members. Parlando del più e del meno e avendo saputo della mia attività, mi hanno proposto di presentare la candidatura. Dopo un anno d’indagini preliminari è arrivata la nomina.

Hai anche vinto il premio d’alpinismo De Simoni? Cosa puoi dirci a riguardo?

Sì, ero già stato segnalato a Cervinia nel 1999, poi è arrivata la vittoria nel 2003 a pari merito con Mario Manica. Il premio De Simoni rappresenta idealmente un riconoscimento per ciò che dovrebbe essere secondo me l’alpinismo: esplorazione, conoscenza e divulgazione. È un premio rivolto agli “alpinisti” che ancora credono che sulle Alpi vi sia ancora qualcosa da dire, in campo tecnico e conoscitivo. Per me è stata una bella soddisfazione e spero che il premio continui a premiare l’attività di ricerca in montagna, non quella della mera ripetizioni d’itinerari. Spero che i prossimi vincitori in futuro continuino ad essere “alpinisti” e non semplici “arrampicatori”. Certo che stare in un Albo d’oro assieme a certi mostri sacri fa un po’ effetto…spero d’essermelo meritato.

Come e quando hai iniziato?

Sono cresciuto in montagna, prima a Courmayeur e poi nelle Valli di Lanzo, quindi ti risponderei “da sempre”. Tuttavia, siccome so cosa intendi, ebbene, diciamo ufficialmente dal 1977, quando incominciai a fare delle escursioni a piedi. Poi, nel 1979, feci un breve corso d’arrampicata per ragazzi organizzato dalla Società delle Guide di Courmayeur e da Cosimo Zappelli, allora amico di mio zio.

Da quanto pratichi l’alpinismo?

Per quanto riguarda l’alpinismo, ho fatto le mie prime vere salite nel 1981, collezionando in un primo tempo tutte le vie normali delle più importanti vette delle Alpi Graie, poi, poco per volta, sono passato a salite più impegnative.

L’arrampicata?

Dopo il corso iniziatico a Courmayeur nel 1979, si può dire che non abbia più smesso…

È il tuo mestiere?

Si potrebbe anche dire così, perché il mio mestiere deriva anche dalla costante attività in montagna praticata in tanti anni. Ma io sono giornalista e scrittore soprattutto, e mi occupo di geografia e di ambiente alpino. Poi, sono anche un tecnico della FASI e lavoro due giorni alla settimana presso la palestra gestita dalla Società Arrampicata Sportiva Palavela di Torino

Al massimo quanto ti sei allenato e dove?

Io provengo dalla generazione degli “arrampicatori” dei primi anni ottanta. L’arrampicata per me era un’attività che praticavo sia in montagna che su vie di media quota, ma molto raramente andavo in falesia.

All’epoca però non era come oggi e, l’allenamento era assai fatto in casa, specialmente per chi non frequentava in modo sistematico una palestra indoor. Alla fine si andava in sovrallenamento oppure ci si procurava danni ai tendini, cosa che mi è successa più volte. Generalmente frequentavo la palestra di arrampicata Guido Rossa, presso il Palazzo a Vela di Torino, oppure mi allenavo ai massi dietro casa a Cantoira, quando ne avevo voglia.

Ho iniziato ad allenarmi in modo sistematico solo nel 1987, quando l’ambiente dei corsi roccia delle truppe alpine dove prestavo servizio di leva, imponeva agli istruttori di passare molto tempo assieme. Dopo una giornata di corso con gli allievi si usciva anche ad arrampicare, magari dopo aver fatto un’ora di pesi in palestra. In seguito l’allenamento è divenuto più razionale e metodico, con sedute di quattro volte la settimana e scalata sul muro. Ti dico però che, anche sulla plastica, ho sempre scalato e scalo tuttora anche solo per divertimento.

Quanto ti alleni ora?

Pur lavorando due giorni la settimana a Torino in palestra, tra corsi e assistenza mi resta poco tempo. Scalo e basta quando riesco, poi corro molto, vado in mountain bike e d’inverno faccio molto ski-alp e sci nordico. Te l’ho detto, più che uno scalatore assiduo sono un assiduo praticante della montagna…

Quante vie hai aperto/chiodato?

Ho aperto 21 vie nuove in montagna e chiodato circa 150 vie d’arrampicata. Da un po’ di tempo a questa parte cerco di usare sempre di meno il termine “chiodato”…

Dove hai scalato?

Ovunque si potesse arrampicare, su ghiaccio e su roccia, dalle Alpi occidentali alle Dolomiti passando per il Masino-Bregaglia-Disgrazia. Per quanto riguarda l’alta montagna ho sempre prediletto il massiccio del Monte Bianco così come quello del Pelvoux, anche se, per “innamoramento” e per questioni di tempo, ultimamente ristagno un po’ sulle montagne di casa. Per quanto riguarda l’”arrampicata pura”, siccome amo le vie multipitch, sono andato spesso nel Briançonnais. Per noi “torinesi” è molto comodo…

Qual è la tua via ideale?

Quella via di gneiss – granito ricca di diedri e soprattutto di fessure. Vuoi il nome di una delle vie d’arrampicata a bassa quota più belle per me in assoluto? Il Diedro Nanchez al Caporal, nella Valle dell’Orco.

Hai conosciuto Gian Piero Motti: parlami di lui.

Qualsiasi scalatore in erba gravitante nell’area della Val Grande di Lanzo nei primi anni ottanta, conosceva Motti. Gian Piero passava gran parte del suo tempo libero a Breno di Chialamberto e, frequentemente, lo si poteva incontrare ai massi della frazione Balme di Cantoira, dove egli stesso aveva tracciato un circuito di passaggi già nei primi anni ’70. Il triennio ‘80-’83 è stato quello più critico per lui, durante il quale ha maturato proprio nel Vallone di Sea in Val Grande la sottile “invenzione” delle “Antiche Sere”, che fa seguito all’utopia del “Nuovo Mattino”.  Si è trattato di un testamento spirituale degno dei più grandi romantici dell’alpinismo, in cui non ha corretto affatto i temi del Nuovo Mattino, tentando invece di spiegarne la purezza dell’idea primigenia, le conseguenti mistificazioni volute da qualcuno e l’equivoco che ne è scaturito.

Mi fa sorridere chi, ancor oggi ritiene Gian Piero Motti responsabile di una sportivizzazione dell’arrampicata fine a sé stessa, che sarebbe figlia del Nuovo Mattino. Vuol dire solo strumentalizzare un pensiero che non si è invece affatto capito, oppure, ancora peggio, non avere capito effettivamente nulla! Gian Piero, a me personalmente, ma credo anche a molti altri scalatori più introspettivi, ha lasciato una possibilità in più, cioè quella di cogliere un “sentimento” nel praticare la scalata o la montagna degno degli ideali più puri del nostro Gism.

La scalata, come l’alpinismo, è un fatto spirituale nel senso anche più laico del termine e poco importa se la vetta sia quella di una famosa montagna, di un masso o di una lunga parete alla fine della quale ci attende un bosco. É quello che io chiamo il “sentimento della meta”, che non esclude la “vetta”, nemmeno il Nuovo Mattino intendeva farlo in modo definitivo, ma non ne riconosce semmai l’esclusività. Del resto, ciascuno di noi, ha la propria vetta intesa come valore simbolico, e non esiste una vetta “migliore” o peggiore di un’altra.

Poi, pensa a questo fatto: definiresti “non alpinismo” una lunga parete con tutte le difficoltà oggettive e soggettive delle grandi montagne, magari isolata e dove non v’è certezza alcuna di riuscita, solo perché alla fine di questa vi è un altipiano tappezzato di rododendri? Sarebbe forse più alpinismo raggiungere una modesta “vetta”, magari alle porte di una città e lungo un comodo sentiero, solo per rispondere a una necessità morfologico – simbolica? Non lo credo affatto…

Ancora oggi, sono molto amico della famiglia Motti, che continua a frequentare assiduamente Breno in Val Grande di Lanzo e, con Carla Motti, spesso collaboro ad iniziative a carattere storico- culturale.

Parlami di Gian Carlo Grassi.

Gian Carlo, già protagonista del Nuovo Mattino, raccolse l’eredità delle “Antiche Sere”. Lo fece in modo libero e totale, come sempre è stata la grande avventura umana che lo ha contraddistinto. Grassi era di certo meno raffinato e “cerebrale” rispetto a Motti, dunque fu più facilitato a vivere serenamente il proprio modo di concepire l’alpinismo, dalle grandi pareti alpine e himalaiane alle pareti di fondovalle, dai massi intorno a Torino alle cascate di ghiaccio.

Per lui, l’avventura era sempre la stessa. Ed è giusto che sia così! Ricordo che un giorno, l’amico e mio maestro di giornalismo Emanuele Cassarà, scrisse che le goulottes e le cascate che Gian Carlo saliva a decine non erano di fatto “alpinismo”.

Emanuele era un grande detrattore dell’alpinismo idealista ed era al contrario promotore dell’alpinismo sportivo, dunque, a ripensarci oggi viene da sorridere! Pur nella loro genuina semplicità, alcuni scritti e pensieri di Gian Carlo Grassi rappresentano dei momenti altissimi della letteratura introspettiva alpina, che testimoniano intelligenza, romanticismo e vera libertà di pensiero. La sua morte è stata, come quella di Motti, una grave perdita

Erano i tuoi miti?

No, sono stati semmai dei punti di parziale riferimento. I miei miti in alpinismo sono stati René Desmaison, Hermann Buhl e Gary Hamming.

Cosa pensi delle free solo? Ne hai effettuate?

Il free solo, su qualsiasi difficoltà venga praticato, è un passaggio importante se non obbligato per lo scalatore più introspettivo. Arrampicare senza la corda e da soli regala sensazioni uniche sul piano fisico ed emotivo. Tuttavia occorre grande consapevolezza dei propri limiti e grande umiltà, perché “sbagliare” sul terzo grado come sull’8a è fatale allo stesso modo. Ho praticato nel mio piccolo il free solo su alcuni itinerari nel Vallone di Sea, così come lungo alcune vie in montagna, ma occorre veramente sentirsi in pace con sé stessi e in armonia con l’ambiente circostante. È una cosa molto importante…

Cosa pensi del trad climbing?

Per fugare ogni confusione con quella che definiamo “scalata tradizionale”, occorre dire subito che si tratta di un’arrampicata in “ottica britannica”, dunque clean, su strutture generalmente brevi (10-30 m). In questa “nuova disciplina” vi è però molto dell’arrampicata sportiva a livello di preparazione specifica e di “obbiettivo”, come il superamento della difficoltà, pur rimettendo in primo piano la componente psicologica. La risoluzione di alcuni brevi tratti di scalata, beneficia inoltre dell’esperienza ricavata dalla pratica del bouldering.

In senso positivo, lo spirito trad può essere inteso come il legittimo tentativo di difendere certi luoghi da una possibile contaminazione delle “degenerazioni” dell’arrampicata sportiva, dall’omologazione e dall’uso dello spit plaisir come è già successo in molti siti.

Mettere uno spit laddove si possa invece inserire una protezione a incastro, diventa dunque un’azione inutile se non illegittima, soprattutto se ciò avvenga in certi luoghi dove si è preservata un’arrampicata “non sportiva” nel senso tradizionale del termine.

Se la nuova generazione di arrampicatori saprà dialogare con quella del “passato”, io vedo nel trad climbing odierno un ventaglio di benefici che si rifletteranno, come è logico che sia, anche in alpinismo.

Dal punto di vista meramente “tecnicistico”, la rinuncia allo spit in certi casi potrà essere letta come una rinuncia alla garanzia della riuscita, a livello pratico e psicologico (soprattutto tra gli scalatori neofiti e di livello medio-basso). Sarà così possibile riporre al centro del “gioco” l’auto -consapevolezza e la costruzione di una crescita tecnica graduale e responsabile, caratterizzata anche e soprattutto dalla rinuncia.

Dal punto di vista più “idealistico”, la filosofia trad rilancia il gusto della scoperta, dell’esplorazione e, l’incertezza della riuscita, sottolinea l’importanza di quella dimensione dell’avventura che lo spit facile, in basso come in alta montagna, aveva rischiato di menomare e talvolta addirittura di azzerare. Una dimensione dell’avventura legittimata dall’idea di “spazio per la fantasia”, con in primo piano il “sentimento della meta”. E poco importa, a mio avviso, se detto sentimento sarà costruito su pochi metri di fessura proteggibile, sul versante di un masso su una grande parete alpina.

Che cosa rappresentano i meeting nel vallone di Sea ed in valle dell’Orco?

Rappresentano la possibilità di dialogare e mettere a confronto idee ed esperienze tecnico-culturali diverse, importantissime per traghettare in modo consapevole e non radicale i nuovi fenomeni. Spero ve ne siano sempre di più.

Quali movimenti si stanno sviluppando a riguardo?

Il trad climbing sta cominciando a prendere piede tra i giovani e soprattutto tra i neofiti. È importante poter avere, come ho detto, una visione diversa sulla “certezza delle riuscita”. È un momento di forte spinta esplorativa, d’avventura e ce n’era bisogno nel logorato mondo dell’arrampicata figlio dello spit.

Cosa diresti ad un ragazzo che inizia a fare arrampicata?

Di leggere molto e saper riconoscere i buoni maestri…

E se inizia a fare alpinismo?

Esattamente la stessa cosa, ma in più di partire dalla “consapevolezza” del bosco e del pascolo prima di rivolgersi alla dimensione delle rocce e dei ghiacci…

Qual è il futuro dell’arrampicata e quale quello dell’alpinismo?

Un “domandone” al quale è difficile dare una risposta. Penso che molto dipenderà da quanto sapremo riportare il “sentimento” in alpinismo e da quanto sapremo re-inventarci in arrampicata.

Qual è il tuo prossimo progetto in campo alpinistico e quale in campo letterario?

Sto progettando un viaggio nella catena dell’Atlante Sahariano, poi, anche sulle Alpi qualche progettino ce l’ho. In campo letterario sto portando a termine il mio ultimo libro sulla storia alpinistica delle Valli di Lanzo, che dovrebbe vedere la luce in primavera.

Intervista di Christian Roccati
Blog MB: www.mountainblog.it/christianroccati
Sito personale: www.christian-roccati.com

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