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5 Ottobre 2015

Senza categoria

Question de points de vue

«Non capisco cosa ci sia di bello ad andare in montagna da soli. La montagna stimola la condivisione di emozioni, solidifica le amicizie…». Mentre mi sorbisco l’inaspettata e monotona paternale di un vecchio tutor delle mie gite adolescenziali, incontrato sul sentiero, penso a come svincolarmi al più presto da questa situazione. «Questione di punti di vista» rispondo all’amico contrariato mentre salutando riprendo a passo veloce il cammino.
Penso: un bel modo per iniziare questi due giorni alla ricerca della solitudine in montagna. Giungo a “Roua Piana” e mi fermo a rifornirmi d’acqua poco prima della passerella sul torrente Gura, dove, a destra, si stacca il sentiero che sale al rifugio Paolo Daviso. Attiro così l’attenzione e la curiosità di un gruppo di gitanti diretti a questo rifugio.
DSCN7234«Sale al Daviso?» mi chiedono.
«No, vado a dormire al Bivacco Ferreri-Rivero»
Interrogandomi sulla mia meta dell’indomani uno di questi insiste: «Ma perché non viene al Daviso? E’ gestito ed è certamente più comodo»
«Questione di punti di vista» rispondo affrettandomi a ripartire. Giungo al bivacco, ovviamente deserto, contento della serata che si prospetta.
Nessun umano, niente luce elettrica, soltanto un piccolo locale i cui interni di legno e le cuccette, sono ancora quelli originali datati 1887. Ripenso ai miei dieci anni di “lotte” per salvare dall’oblio questo bivacco che trasuda storia, giungendo finalmente all’affidamento al Caai e ai primi interventi di recupero. Il lume della candela illumina le pareti, dove sono incise a temperino firme famose e no, centocinquant’anni di alpinismo “occidentale”. M’infilo in uno dei sacchi-letto di pile che abbiamo lasciato in dotazione al bivacco, assieme a nuovi cuscini e materassi. Quest’inverno un ghiro che ha trovato riparo nella costruzione ne ha rosicchiati alcuni. Mentre tento d’assopirmi sono risvegliato da un curioso scricchiolio che giunge da un vecchio pertugio nel legno per la canna fumaria. Sembra un “rosicchiare” nervoso, segno che l’ospite invernale alberga ancora qui. Sono in qualche modo contento di questa insolita compagnia nel silenzio irreale del vallone della Gura. Forse, non lo sarà altrettanto il ghiro, certamente infastidito dall’imprevista presenza umana. Questione di punti di vista. Alle cinque l’aria è frizzante e il cielo è terso. Lascio il bivacco e inizio la lenta DSCN4538risalita della vecchia morena ottocentesca, oggi vegetata da profumate achillee. La mia meta è la via Borelli – Girardi sulla parete nord della Cima di Monfret 3337 metri, con la quale intendo completare la mia conoscenza della montagna. Sarà probabilmente anche la prima solitaria, poiché dalle mie approfondite ricerche non è emersa alcuna notizia in merito. Salgo l’ablazione del ghiacciaio del Mulinet senza mettere i ramponi: la prima parte è ancora interessata da neve piuttosto molle per lo scarso rigelo notturno, mentre il plateau superiore, di ghiaccio vivo, è sporco di un fine detrito. Individuo la nervatura d’attacco e salgo per rocce rotte fino alla crestina principale. La via è facile ma la roccia è pessima. Inoltre, guardando verso l’alto, la parete non ha un aspetto invitante. A sinistra, vi è però il colatoio dove passa la mia via nuova, aperta in invernale alcuni anni fa. L’ignoto è dunque piuttosto mitigato. Salgo veloce e senza intoppi mentre la faccia destra della parete è martoriata da scariche continue che talvolta mi fanno sobbalzare. In breve esco all’intaglio della nota cresta est-sudest dalla quale con facile e divertente arrampicata giungo in vetta. Sul versante francese si apre la vista verso l’esteso e docile Glacier du Grand Mean, mentre dal ripido versante italiano sta già salendo una nebbia compatta. Dalla cresta ovest, lato francese, giungono due alpinisti belgi partiti dal Refuge Des Evettes. Ci scambiamo impressioni sulle rispettive salite e, i due, venuti a sapere che intendo ridiscendere per lo “Sperone di Santo Stefano” maturano la decisione di seguirmi per poi pernottare al Daviso.
Contento di quella fortuita amicizia “internazionale” m’incammino verso la cresta di spartiacque glaciale e, raggiunta la quota 3247 metri, scendo quindi le ripide rocce che adducono al filo dello sperone. E’ questa una via che ho sceso decine di volte di rientro dalle mie ascensioni nel gruppo, impegnativa, ma completamente al riparo dalla caduta pietre. Giunti al primo colpo d’occhio verso il vertiginoso versante, però, i due compagni s’inchiodano, domandandosi come sia possibile scendere da un siffatto baratro.
Cerco di convincerli: «N’est pas si difficile!»
«Question de points de vue!» Mi risponde uno.
Sorrido.
Così ci salutiamo e mentre gli amici riprendono la docile via glaciale dal Mean, io m’incammino tra le rocce ripide. Al termine dello sperone riesco anche a evitare la solita crepaccia terminale con un traverso verso la ripida rigola glaciale del Colletto DSCN4501Ricchiardi: saranno gli unici metri in cui estrarrò la piccozza dallo zaino. Sono le undici quando “atterro” sul plateau del Mulinet. In pace con me stesso e con l’ambiente circostante, mi siedo su un masso “erratico” per il mio immancabile momento contemplativo. In quest’angolo di Alpi Graie meridionali il tempo pare essersi fermato e il terreno rimane per fortuna “d’avventura”, nonostante qualche malaccorto auspichi una “messa in sicurezza” di alcuni itinerari che centocinquant’anni fa venivano percorsi con gli scarponi chiodati e con le corde di canapa! Per non parlare delle vie di discesa, in questo gruppo lunghe e da non sottovalutare, che altri vorrebbero eliminare con rapide vie di calata attrezzate usando il trapano. Per certuni ciò che conta è una sorta di “democrazia della vetta” demente e ottusa che mortifica non solo la vera sicurezza che dovrebbe invece nascere dalla conoscenza dei propri limiti ma anche quello “spirito odisseico” che, consapevolmente o inconsapevolmente, è alla base del nostro agire in montagna.
Ma ciò, ovviamente, è “questione di punti di vista”.