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17 Luglio 2012

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"PIONEERS" Alpinisti britannici sulle Dolomiti dell'Ottocento

La collaborazione fra la Nuovi Sentieri Editore e Mirco Gasparetto ha dato ottimi frutti: è nato un interessante volume, ben inserito nella prestigiosa collana di NS.

Il titolo è brevissimo, una sola parola, mille significati: Pioneers, seguito da un sottotitolo che fa capire dove l’autore “va a parare”: alpinisti britannici sulle Dolomiti dell’Ottocento.

Nuovi Sentieri “è” Bepi Pellegrinon, accademico del Cai, storico dell’alpinismo dolomitico, “paron” di un archivio da capogiro, editore coraggioso, “piccolo e solo”, con un carnet di 500 titoli in 40 anni di ininterrotta ed entusiastica attività.

Mirco Gasparetto è un giovane trevigiano con la passione per la ricerca, redattore della rivista Le Alpi Venete, direttore del pregevole 46° Parallelo, autore di Montagne di Marca, l’alpinismo dei pionieri a Treviso (ancora i pionieri, la sua passione) e altre “cose” importanti.

Il libro, seppur “severo” pignolo preciso, si legge come un romanzo dove le righe si rincorrono da un personaggio all’altro incrociando primizie e note curiose. Il merito di Gasparetto, a mio parere, non sta tanto nella descrizione e nella ricostruzione, peraltro accurate e precise (anche se in parte già note) dell’attività dei migliori alpinisti dell’Ottocento in Inghilterra, quanto nella scoperta di “artisti minori”, ma non per questo meno importanti.

Una ricerca scrupolosa e attenta lo ha condotto sulla strada dei “secondi”, di quelli cioè che vivevano all’ombra dei personaggi di spicco (non sempre i migliori) e che nelle quasi 300 pagine di questo volume trovano finalmente il posto che si meritano. Vengono presentati non solo tecnicamente, ma anche con immagini inedite del loro volto, della loro fisicità, del loro sorriso tipicamente anglosassone.

Costoro entrano, finalmente, nella grande storia delle montagne. Come dire che nel 2112 (duemilacentododici, o giù di lì) il Gasparetto di turno non racconterà solo le gesta “d’oro” dei pur grandi Messner, Bonatti e tanti altri “eroi” del nostro tempo, ma anche le imprese degli alpinisti “d’argento” o gli umili “di bronzo” che hanno contribuito non poco alla reale costruzione dell’alpinismo, non solo dolomitico. A ognuno il Gasparetto suo, insomma !

Cinque risposte dell’autore ad altrettante domande ci fa capire meglio la “tecnica” usata per confezionare questo elegantissimo e prezioso volume:

Perché gli inglesi sono giunti per primi?

Anzitutto è bene sfatare un luogo comune: gli inglesi – o meglio, i britannici – non sono arrivati in vetta prima d’altri esclusivamente perché “danarosi”. È certamente un dato di fatto il loro diffuso benessere rispetto al resto d’Europa, con un PIL a livelli esponenziali: bacini carboniferi e acciaierie già collegati da efficienti reti ferroviarie, una potente industria tessile, cantieri navali e scali mercantili tra i più produttivi dell’Ottocento… ma il valore aggiunto risiede in una politica post-rivoluzione industriale, che aveva favorito lo sviluppo di una società dalla cultura diffusa.

In fondo, un grande viaggiatore dolomitico quale Gilbert non poteva certo considerarsi ricco… come non lo era Darwin prima d’imbarcarsi sul “Beagle”. Al di là dei mezzi economici, era ben radicata una precisa filosofia, un modello educativo. Freshfield, figlio unico di un importante banchiere londinese, aveva 19 anni quando scelse di partire con dei compagni di scuola verso la vetta del Bianco e, di seguito, alla volta degli sconosciuti gruppi di Brenta e delle Pale di San Martino. Naturalmente, sarebbe antistorico in questo quadro non considerare il determinante ruolo giocato dalle “nostre” guide alpine.

Come si arriva a scrivere un libro di ricerca, di costruzione storica come Pioneers?

Personalmente, ho sempre considerato la vicenda storica, nella sua globalità, parte fondamentale della pratica alpinistica. Per fare un esempio, sono convinto che chi sale oggi la “via del drago” (aperta sulla parete ovest del Lagazuoi Nord 2804 m, da C. Barbier, A. Giambisi, C. Platter il 26 settembre 1969 in risposta ad un articolo provocatorio di R. Messner contro l’uso dei chiodi a pressione; nota di izc) e non conosce, pur sommariamente, chi era Claude Barbier (e gli altri due “secondi”) e perché la via si chiama in quel modo (…“salvate il drago” diceva Messner, cioè salvate la purezza dell’arrampicata; nota di izc), ha compiuto indubbiamente una bella arrampicata, ha trascorso una giornata appagante in montagna, ma non ha percorso la “via del drago”.

Lo stesso vale per chi sale la normale al Sorapìss, la “via dei fachiri” sulla Cima Scotoni (Enzo Cozzolino e Flavio Ghio, 14 e 15 gennaio 1972 per la parete sud ovest; nota di izc) oppure il celebrato Campanile di Val Montanaia, tanto per rimanere in Dolomiti… Per me, conoscenza e confronto sono sempre stati lo stimolo più intenso, la spinta più forte verso l’alto; come fondamentale è stato il modello di ricerca inaugurato a suo tempo da Giovanni Angelini, basato su esperienza e studio delle fonti primarie.

Per quanto riguarda Pioneers, oltre alle mia passione bibliografica, sono stato pure fortunato: ho costruito una rete di corrispondenti europei che ha assecondato le mie indagini… per questo il web è un mezzo straordinariamente efficace.

Quanti sono i tuoi Pioneers ?

I Pioneers descritti nei 19 capitoli sono almeno una cinquantina. Oltre all’azione alpinistica ho voluto ricostruire la loro vicenda umana, ho riportato a galla i loro scritti, ho cercato il ritratto del loro volto. A tal proposito devo dire che ho provato una certa emozione quando mi sono ritrovato tra le mani alcune inedite immagini quali quelle di Josiah Gilbert o di William Edward Utterson-Kelso; nomi non certo secondari nella Storia delle Dolomiti.

C’è un alpinista in particolare che la Storia finora non aveva rilevato a sufficienza, o che ti ha particolarmente colpito?

Direi Tucker. Un po’ per l’ingombrante fama del suo abituale compagno di viaggi (Freshfield), un po’ per l’assonanza con il cognome di un altro “mostro sacro” (Tuckett) che talvolta ha generato confusione, la sua rimane una figura non troppo considerata. Eppure fu il primo a calcare vette quali il Sass Maòr, il Catinaccio, la Cima Canali. Ma anche Henry Wood, Robert Corry, Edward Lisle Strutt.

Dopo questo lavoro, rimane ancora qualcuno da riportare alla luce? Qualcosa d’inespresso?

Certamente! Tali ricerche aprono sempre ulteriori orizzonti su montagne e personaggi. Nonostante quella dell’alpinismo sia una Storia giovane, ci sono degli “inverni storici” che paiono realmente impossibili da ricostruire. Oltre a questo, mi sarebbe piaciuto vedere la personalità di Whymper o il piglio di Mummery a confronto con la roccia dolomitica. Entrambi, però, avevano idealizzato un alpinismo che non poteva prescindere dall’estetica di quello che Coolidge chiamava “il Regno delle nevi”. Le Dolomiti, per loro, erano solo un breve nome compreso entro pochi millimetri di carta geografica.

Italo Zandonella Callegher

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