MENU

27 Gennaio 2021

Riserve

A proposito di “Scrambling”

Nel 1871 Edward Whymper, il conquistatore del Cervino, pubblicava “Scrambles Among the Alps in the Years 1860-69”, in cui narrava le sue scalate e le sue esperienze alpinistiche sull’arco alpino. Il termine scrambles, dunque, identificava in senso generico le “ascensioni”, in un’epoca in cui l’alpinismo pionieristico non si poggiava ancora molto a tecniche e attrezzature, tantomeno a intenti puramente sportivi, ma trovava la sua ragion d’essere nella curiosità e nell’esplorazione. Per “alpinismo” s’intendeva raggiungere la cima di una montagna, magari mai visitata prima, non importa se camminando o utilizzando l’arrampicata.  Nel corso del tempo, l’evoluzione stessa dell’alpinismo ne ha definito i confini in termini tecnici, differenziandolo da altre attività. E’ opinione condivisa che le condizioni necessarie perché si possa parlare di alpinismo siano l’ambiente di alta montagna e le difficoltà determinate dagli ostacoli oggettivi, che richiedono uno schema motorio di arrampicata e attrezzi come imbracature, corde, chiodi e altro, necessari per la progressione e per la sicurezza ogni qual volta vi sia un reale e potenziale pericolo di caduta. E’ indispensabile porre l’accento sull’elemento “alta montagna” per parlare di alpinismo, o comunque pensare a un ambiente con caratteristiche d’isolamento e severità. Questo perché, come si sa, si può arrampicare ovunque, su percorsi attrezzati e in siti di natura ben lontana dal contesto montano. L’escursionismo, dunque, può condividere con l’alpinismo anche l’ambiente di alta montagna, ma deve cedere il passo, dove la progressione richieda costantemente l’uso delle tecniche di arrampicata, della corda e dei mezzi di assicurazione. E’ questa una linea di demarcazione che personalmente mi soddisfa abbastanza, perché pone degli elementi distintivi sufficientemente chiari, anche se si tratta di un confine certe volte sovrapponibile. Nei primi anni ottanta, alcune scuole di alpinismo del club alpino in cui ho militato, organizzavano sapientemente dei corsi di “introduzione”, talvolta addirittura con “indirizzo naturalistico”. Questi corsi fornivano le basi della conoscenza della montagna come “paesaggio fisico”, migliorando nell’allievo la percezione del rischio e del pericolo, e costruendo le tecniche idonee di movimento su quei terreni di transizione tra media e alta montagna, come facili rocce frammiste a erba, pietraie, creste erbose. Oggi questo terreno è prerogativa delle “Scuole di Escursionismo” nei cosiddetti corsi “avanzati”. Si affrontano insomma quei terreni “oltre il sentiero” dove l’aiuto degli arti superiori diventa una costante, che richiedono capacità coordinative a livello motorio, una buona gestione del baricentro corporeo e, dal punto di vista delle conoscenze generali della montagna, un’approfondita consapevolezza dell’ambiente fisico in cui ci si muove. Per questo escursionismo avanzato, oggi, non di rado si rispolvera il termine anglosassone scrambling. In realtà, va detto, in italiano non esiste una traduzione precisa ed esaustiva per scrambling. I britannici, peraltro, che nella loro terminologia hanno il dono della sintesi, vi comprendono il terreno accidentato che va oltre il sentiero, tipico dell’escursionismo impegnativo, e anche quello dove è già necessario fare ricorso alla corda e a mezzi di assicurazione. Si tratta di creste rocciose articolate e brevi paretine appigliate, dove nut e friend tornano utili per proteggere tratti esposti e con pericoli di caduta, e dove bisogna far ricorso a brevi discese in corda doppia. Insomma, lo scrambling ingloba quella sottile linea di confine tra le due discipline. Utilizzando le normali scale di difficoltà in uso, dunque, possiamo affermare che nell’accezione più “britannica” del termine, lo scrambling comprende quelle escursioni che vanno dalla valutazione EE (Escursionisti Esperti), fino alla valutazione PD (Poco Difficile) in alpinismo. Per quanto riguarda i tratti di arrampicata, si parla di passi di secondo grado con qualche isolato passaggio di terzo grado. Lo scrambling è figlio del paesaggio fisico della terra d’Albione, di zone come Peak District, Tryfan, Cairngorms, Glen Coe, Ben Nevis, solo per citarne alcune. Creste e barre rocciose frammiste a erba, canalini, banchi di rocce accatastate, sono gli elementi più tipici che si possano incontrare. Un paesaggio abbastanza simile, del resto,  da noi lo troviamo in Appennino, nell’ambiente prealpino e nella zona alpina sulla maggior parte delle nostre montagne sotto i 2500 metri di quota. Insomma, in ogni parte del “Bel Paese” dove la natura abbia creato delle asperità nella litosfera. Qualsiasi alpinista ed escursionista di lunga esperienza, ha incontrato questi terreni nel corso della sua carriera e, l’alpinista in particolare, li percorre spesso durante gli avvicinamenti alle più alte montagne che intende scalare  Nulla di nuovo dunque, giacché molti di noi nel praticare la montagna si sono trovati decine di volte nella condizione di fare dello scrambling senza saperlo. Oggi, però, diversi social media ripropongono questo termine con l’obiettivo di destare l’interesse del pubblico, che non è sempre e solo quello “della montagna”. Può così capitare di sentire o leggere i commenti di qualcuno, non certo avvezzo alla pratica dell’alpe, che afferma: “Bello! Mi piacerebbe fare scrambling”. In questo caso l’operazione mediatica è riuscita ma resta la possibilità d’ingenerare pericolosi equivoci, perché  quella che appare come un’attività piuttosto “semplice”, cela al contrario alcuni dei terreni più insidiosi e delicati che la montagna può offrire. A questo punto, ci torna innanzi tutto d’aiuto il ben più chiaro termine di “escursionismo avanzato”, destinato a praticanti esperti e che di conseguenza esclude l’imperizia. C’è poi l’equivoco dell’alpinismo “Poco Difficile”, che non deve ingannare: sempre di alpinismo si tratta e “alpinismo” significa conoscenza delle manovre di corda e delle tecniche di assicurazione. Il termine “facile”, poi, potrà essere azzardato da un alpinista esperto, non certo da chi non ha mai percorso una cresta esposta, o preso in mano una corda. L’improvvisazione non è ammessa! Sgomberato, o almeno spero, il campo dagli equivoci, vi dico qual è la mia opinione in merito. Lo scrambling, per me, coincide in buona parte con il concetto di “escursionismo avanzato”, lungo tutti quei terreni accidentati, anche parzialmente rocciosi, che si trovano oltre i sentieri tracciati o segnalati, che richiedono anche l’uso delle mani per la progressione ma non l’utilizzo di tecniche alpinistiche. Perché? Semplice: perché se devo utilizzare una corda e dei punti di assicurazione sto praticando dell’alpinismo. Non importa se “facile”. E’ un’altra disciplina. In seconda battuta, perché amo muovermi in “libertà”, nella piena consapevolezza dei miei limiti e di quelli dettati dalla montagna. Qualcuno potrà a questo punto tirare in ballo la famosa linea di sovrapposizione tra escursionismo e alpinismo. Benissimo, starà a me escursionista esperto sapere se ho la preparazione fisica e le capacità tecniche per sconfinare nell’alpinismo. Per quanto mi riguarda, l’“escursionismo avanzato” è stata sempre l’attività delle mezze stagioni, in special modo quella autunnale. L’impossibilità di praticare l’alpinismo o la scalata secondo i miei obiettivi prefissati, nei recenti periodi di lockdown, mi ha inoltre imposto di sfruttare le montagne di casa considerandole sotto una prospettiva differente rispetto a quanto non avessi mai fatto in tanti anni. Uscendo dalle consuete “vie normali”, mi sono così ritrovato a ripercorrerne da solo versanti inediti, ripidi speroni dove la roccia, seppur ricca di appigli e appoggi, va costantemente verificata, creste erbose affilate irte di divertenti torrioni da arrampicare. Ogni giorno partivo senza un obiettivo preciso, poi, era la montagna stessa con le sue forme a suggerirmi una meta.  E a proposito di “vagare senza meta”, qualche volta mi è capitato di leggere che questa è una delle caratteristiche filosofiche dello scrambling. Anche in questo caso è necessario non ingenerare equivoci pericolosi. Ho fatto della teoria del “sentimento della meta” uno dei miei punti fermi del mio andare in montagna, e vi ho dedicato ben due saggi. L’ho fatto soprattutto nella seconda parte della mia vita alpinistica, successiva al periodo un po’ ossessivo della ripetizione delle vie impegnative e delle prime salite. Ho dunque seguito un percorso evolutivo che mi ha portato a dare più importanza al “viaggio” che alla meta fisica fine a se stessa. Se vagare senza meta e senza un percorso preciso, può voler significare un disimpegno mentale dal peso delle difficoltà oggettive della montagna, correggendo sapientemente e con coscienza la “rotta” durante il viaggio, allora questo girovagare diventa assai formativo, piacevole e interessante. Se invece s’interpreta come un procedere allo sbaraglio, senza un minimo di pianificazione e di conoscenza del terreno, allora può anche diventare pericoloso se non si possiede la giusta esperienza per fronteggiare l’ignoto. Ecco perché lo scrambling non è un’attività che s’improvvisa, ma che al contrario richiede la capacità di saper improvvisare e adattarsi. Quanto all’essenzialità dell’equipaggiamento, invece, tralasciando per quanto mi riguarda ogni genere di attrezzatura alpinistica, una certa leggerezza è necessaria muovendomi spesso in velocità. Il mio zaino preferito ha un volume di 25 litri, una forma sobria e con un buon schienale, una via di mezzo tra lo zaino da scalata e uno zaino da corsa. Siccome spesso mi ritrovo a raggiungere più cime, o comunque a percorrere lunghi tratti in ascesa alternati ad altri dove la perdita di dislivello è notevole, ho sempre con me almeno tre cambi d’abbigliamento intimo funzionale, da vestire a contatto con la pelle. Soprattutto se c’è vento e la perdita di quota è importante, mi piace essere asciutto ed evitare un eccessivo raffreddamento. Tra le cose essenziali che non mancano mai nel mio zaino: un guscio antivento, un piumino comprimibile da 100 grammi, un berretto, due paia di guanti, uno di cuoio con leggera imbottitura da usare eventualmente sulle creste o nei tratti rocciosi, l’altro impermeabile. Nel kit di emergenza, che comunque dovrebbe trovarsi sempre nello zaino di chi pratica montagna, in qualsiasi disciplina, ho un piccolo “set fuoco” che in un bivacco improvvisato può fare la differenza. Vi stivo anche una fonte di luce secondaria: una pila a mano piccola ma potente in aggiunta all’immancabile lampada frontale. Non mancano un fischietto, un coltello multiuso e un sacco da bivacco. Quest’ultimo può essere sostituito dalla più economica ma indispensabile coperta isotermica monouso. Quanto all’essenzialità dei mezzi di orientamento, volendo rendere lo scrambling più vicino allo spirito originario, non sarebbe male lasciare a casa il GPS e tornare a utilizzare con perizia carta e bussola quando necessario. Per quanto riguarda le calzature, il discorso si fa complesso e l’utilizzo segue la necessità di adattarsi alla tipologia di terreno che si affronta. Si può variare dallo scarponcino alla scarpa da trail-running. Personalmente, mi trovo benissimo con una scarpa bassa di tipo “approach” (da avvicinamento), abbastanza strutturata e con la suola Vibram© . Mi garantisce leggerezza, sensibilità e permette di gestire molto bene i tratti di arrampicata sulla roccia, i traversi su pendii erbosi, brecciolino e pietraie. Queste calzature, ormai, hanno quasi tutte delle versioni “mid”, cioè a mezza-caviglia, che offrono una maggiore protezione al malleolo specie sul detrito, senza diminuire le doti di leggerezza. Personalmente, sui percorsi dove prevale l’erba secca autunnale, non mi trovo male con le scarpe da trail-running. Hanno un’ottima tenuta anche sul terriccio umido ma per contro sono più deficitarie nelle pietraie e in arrampicata. Lo scarponcino più “da montagna” è sempre un’ottima soluzione personale, ed è una necessità se s’intende percorrere tratti di neve dura. A tal proposito, mi sembra superfluo dire che ramponi e piccozza possono far parte dell’attrezzatura dell’escursionista, anche se nell’immaginario collettivo sono strumenti dell’alpinista. Ovviamente si tratta di attrezzi che richiedono addestramento e capacità di movimento anche se adattati a terreni semplici, e a maggior ragione rafforzano l’idea che l’escursionismo avanzato non s’improvvisa. Anche il casco, si pensa spesso che sia un attrezzo riservato ai soli alpinisti. Nulla di più sbagliato. Laddove esista il pericolo caduta pietre va indossato, inoltre, può rivelarsi decisivo per proteggere il capo da urti in caso di scivolata su certi terreni accidentati.  Ai “ramponcini” avevo già dedicato un articolo in passato, evidenziando tutti i pericolosi limiti se usati su terreno improprio, ma anche la loro utilità in moltissime altre occasioni dove la scivolata è alle porte, sia su terra gelata sia su erba, quanto su neve compatta poco ripida. Qual è dunque il percorso da seguire se si vuole praticare lo scrambling? Per quanto mi riguarda, sono lontani i tempi in cui l’approccio alla montagna passava dalla graduale conoscenza sul campo dell’ambiente alpino, partendo dalle passeggiate nei boschi per poi giungere alle “gite” vere e proprie, oltre i pascoli, toccando le prime vette e misurandosi con le  difficoltà oggettive del terreno. Un percorso che, negli anni settanta, mi fu reso possibile da qualche valligiano di buona volontà che accompagnava noi ragazzi alla progressiva scoperta della montagna. Quel periodo fu per me l’anticamera della successiva attività alpinistica. Oggi, questo avvicinamento alla montagna che non prescinde ovviamente dalla sperimentazione individuale, è facilitato dalle numerose occasioni formative a disposizione. E’ consigliabile, quindi, seguire un corso base di escursionismo presso una delle tante scuole del Club Alpino Italiano, per poi passare al corso successivo di “escursionismo avanzato”. Alcune scuole di alpinismo, non molte a dire il vero, organizzano poi dei corsi di “introduzione”, che rappresentano un’ottima possibilità per chi voglia superare il limite dell’escursionismo, fermo restando che l’opzione di affidarsi a un professionista come una guida alpina, resta sempre un buon investimento.  Nella presentazione del mio manuale “Sicurezza e prevenzione nell’attività escursionistica”, pubblicato da “Escursionista Editore”, scrivevo: “Decontestualizzare l’insegnamento della tecnica dal rapporto uomo-ambiente, significa perdere quell’ancestrale contatto con il paesaggio naturale che portò la civiltà dei contadini-pastori a definire uno spazio vitale, basato su un progressivo percorso cognitivo delle terre alte. Un rapporto basato sulla conoscenza degli elementi che lo caratterizzano e lo influenzano, sull’equilibrio e sul rispetto. Il concetto di sicurezza deve dunque partire dalla consapevolezza del bosco, del pascolo, per poi giungere a quella dei più severi ambienti delle quote più alte, là, oltre il sentiero…”. Se poi vorrete chiamarlo scrambling, va benissimo.