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5 Marzo 2018

BANFF FESTIVAL 2018: un’edizione da raccontare

Banff Festival: Attesa!

Non c’è inizio anno, da sei inverni, in cui io non attenda questo momento, il World Tour del più importante video festival d’avventura al mondo. Si abbassano le luci ed eccomi di nuovo pronto per emozionarmi e fermarmi e ad ascoltare l’esistenza di altre persone.

La musica irrompe in sala e tutto si modifica: forse siamo noi a trovarci da un’altra parte, in un non luogo, forse nella nostra testa.

 

Questa edizione è meno adrenalinica delle precedenti, sempre più tesa al racconto e il primo capitolo di questo libro s’intitola LOVED BY ALL: THE STORY OF APA SHERPA

Si tratta della storia di Apa Sherpa che ha raggiunto la cima dell’Everest per 21 volte e rappresenta la sua stessa comunità. Di norma la sua gente chiama i propri figli con il nome del giorno della settimana in cui sono nati, ma lui ha ricevuto un nuovo appellativo dopo esser sopravvissuto a una piccola catastrofe.

Apa “Amato da tutti” è se stesso ma rappresenta l’intero il popolo Sherpa che sopravvive a ogni costo ai piedi della Dea Madre della Terra. Crebbe nella remota regione del Khumbu, in Nepal, e dovette abbandonare la scuola e lavorare come portatore dall’età di 12 anni, in seguito alla morte del padre, un percorso molto comune per molti amici.

Gli alpinisti giungono da tutto il Pianeta e portano soldi garantendo lavoro per i portatori; gli sherpa si guadagnano così da vivere, ma contemporaneamente questo meccanismo impedisce la possibilità di diffondere un cultura che permetta nuove strade culturali per questo grande popolo. Gli uomini che vivono sul tetto del mondo dove stanno andando? Cosa accadrà? Cosa è auspicabile?

Ricordiamo ancora il bel film High Tension del 2013 (proiettato nell’edizione Banff 2014) che presentava mediante mezzi completamente differenti, una situazione su cui non si può più tacere, con i protagonisti Simone Moro, Ueli Steck e Jonathan Griffith.

Nel 2018 la regia di Eric Crosland e la produzione di Malcolm Sangste, in 14 minuti parlano un linguaggio molto diverso, fatto di calma e gesti, di sguardi e domande spontanee, proiettando un movie in “lingua autoctona”. Questo film propone la questione “sherpa” attraverso gli occhi di uno sherpa, senza il protagonismo occidentale che talvolta distorce la realtà.

 

La pagina successiva non poteva che esser leggera e scanzonata …talmente da trovarsi in cielo in bilico sulla slack di SURF THE LINE

Il gruppo Flying Frenchies rappresenta la fantasia e la libertà e la illustra con toni circensi, semplicità e con grande talento. Non servono temi celebrativi, è tutto lì davanti, sono le azioni a mostrare, tanto che quasi non si vedono. Ogni incredibile gesto corre sul filo dell’impossibile, talmente naturale da esser accettato come la norma.

La regia di Jérémy Frey in questi tre minuti intensi propone una serie di riprese molto dinamiche che ritraggono un surf lanciato a folle velocità su una slack, governato da un pilota e cavalcato da un jumper che si proietta nel vuoto, che non inghiotte il malcapitato, ma al contrario lo coccola tra il sorriso e la gioia.

Il gruppo ebbe origine da casuale incontro nel 2012 tra Julien Millot e Tancrède Melet in Verdon e da una scintilla divampò un incendio. Oggi questi straordinari atleti sono alpinisti, base jumper, slack liner, ma anche ingegneri, musicisti, danzatori, circensi e tutto fare, tutti eguali sotto alla maschera coloratissima dei clown, andando in scena nel teatro del mondo.

 

In ordine quasi sparso troviamo poi WHY , regia di Hugo Clouzeau e produzione We Are Hungry.

Film 2016, storia di una vita… Un gruppo di kayaker francesi viaggia nella selvaggia Islanda e si domanda perché?
L’opera si apre con una caduta a rischio potenziale e voce fuoricampo dalle molte questioni. Il fruitore è proiettato da una cam soggettiva all’interno di una cascata gelata; le inquadrature si alternano, tra la sua visione diretta che termina in sospensione e quella dei compagni che prosegue l’attesa. Lo spettatore è prima protagonista del volo e poi della tensione degli amici che non sanno se l’atleta sia riuscito a sopravvivere alla cascata.

Paura, rischio, difficoltà, si alternano in un turbine che ha la stessa frequenza del salto d’acqua, definito “mostro” da una voce fuoricampo… ma il kayaker riemerge e con esso la consapevolezza del perché vivere una vita simile… Questa stessa è la risposta: vivere e non limitarsi a sopravvivere, emozione dopo emozione.

Il tema è ricorrente, ma del resto generazioni di persone si sono domandate perché non assaporare un cammino a colori invece che in bianco e nero? Il punto di domanda scompare e il film diventa una risposta. Why.

 

Passiamo quindi al vertiginoso TSIRKU

Sam Anthamatten, Ralph Backstrom e Hadley Hummer si lanciano sulle leggendarie creste della remota catena del monte Sant’Elia, nel punto di convergenza tra Alaska, Yukon e British Columbia. Adrenalina, senso di vuoto e gesti tecnicamente impeccabili, si alternano in questo film di 16 minuti, regia di ric Crosland e produzione Malcom Sangster, nuovamente Sherpas Cinema.

Salita sulla Corrugate, al di là delle cornici, e discesa ai limiti dell’incredibile in una polvere di neve e con una padronanza dell’equilibrio che veramente hanno pochi paragoni. Primissimi piani emozionanti, musica perfettamente calzante, ritmo sostenuto ma armonioso… una perfetta miscela.

Ciononostante un film che mediamente subisce due difficoltà: screenplay… cliché, di cliché, di cliché e difficile immedesimazione. Lo spettatore sul momento viene rapito, ma poi il battito decelera, la sensazione drena e rimane una splendida fotografia e un bel ricordo.

 

JOHANNA è il BEST SHORT MOUNTAIN FILM, regia e produzione di Ian Derry per la Archer’s Mark.

Johanna Nordblad è una freediver finlandese che affronta un vaggio mentale al di là della coscienza, nel lato oscuro e invisibile dell’anima.

Disegnatrice grafica, appassionata di ciclismo, motocross, snowboard e hiking, a 29 anni stabilì un record di nuoto in apnea sotto il ghiaccio percorrendo 158 metri e una seconda performance con 6 minuti di apnea in acque più calde.

Dopo un incidente ciclistico  iniziò a fare abluzioni in acqua gelida e la conseguenza sulla soglia dei 40 anni fu diretta, la ricerca dell’apnea sotto la superficie dei laghi gelati. Dal cortometraggio non traspare un lato: per questi exploit c’è una preparazione enorme con immersioni graduali e cambi di temperatura in adattamento e anche dal punto di vista scenico, quest’opera è un piccolo capolavoro di difficoltà.

Johanna scruta la superficie del ghiaccio riflettendosi nelle bolle d’aria che corrono senza trovare via di uscita che lo spettatore identifica come chiazze nere riflettenti simili al mercurio. Sono il frutto del suo respiro e di quello dei cameraman che la stanno riprendendo, perfettamente immobili.

Perché ci sia quella staticità necessariaalle scene in un lago significa che per svariati minuti non solo la protagonista, ma tutta la troupe si è fermata in assetto, senza scendere né salire, senza respirare e senza pinneggiare. Dal momento del ciak tutta la squadra lavora come una singola creatura che si muove in un luogo al di là dell’umano, a pochi metri dal mondo conosciuto, eppure silente, in attesa, senza dimensione e senza tempo.

Johanna nuota in un non mondo che compare solo d’inverno, senza permanere in altri momenti, senza nemmeno che gli uomini che vi transitano accanto o sopra, sappiano della sua esistenza.

Il rammarico è che questo incredibile bagaglio di conoscenza e di abilità tecnica sia stato sfruttato soltanto per brevi istanti su una storia e una sceneggiatura che potevano essere estremamente più incisive se calibrate su un pubblico non di nicchia che non può capire quale enorme lavoro ci sia dietro questi 4 spettacolari minuti.

 

SAFETY THIRD è l’ennesima magnifica opera prodotta da Cedar Wright con regia dello stesso e di Taylor Keating

Brad Gobright é l’attuale detentore del record di velocità per la salita al Nose, nella leggendaria parete di El Capitan nella Yosemite Valley, la linea inconfondibile che divide la luce e l’ombra sul gigantesco deserto di roccia. Brad è prima di tutto il casinista della porta accanto con un’irrefrenabile voglia di mettersi alla prova.

Il ragazzo é un incredibile atleta con numerose free solo al suo attivo e incorre in un incidente grave alla schiena da cui deve riprendersi. Non è conosciuto, non é ricco, non é percepito dalla comunità degli scalatori medi come un top climber… Il paragone nasce istantaneo con Alex Honnold, ritenuto il numero uno al mondo per le salite in solitaria integrale in velocità… cioè senza corda!

La storia del recupero corre parallela alla presentazione dell’uomo: si sviluppa agevolmente proiettando lo spettatore in una crescita tra la classica ironia di Wright con l’aiuto dell’amico Alex. Ricordiamoci che Cedar era già stato protagonista del BANFF 2017 con THE FLEDGLINGS e nel 2015 con SUFFERFEST 2 – DESERT ALPINE in  proprio con Honnold.

Screenplay lineare con la camera che strizza l’occhio al terrore, inquadratura dopo inquadratura… Lo spettatore è magneticamente attratto dalle prese che si susseguono in un linguaggio che chiunque può capire. Che arrampichi o meno, il vuoto ti inghiotte; lo stile “zarro” del protagonista e la satira pungente si alternano in un climax che piace.

Il punto debole del movie può essere la lunghezza dello stesso per i non addetti ai lavori: chi non scala riesce a capire alla perfezione ogni scena, ma non è detto che voglia farlo per così tanto tempo. Ai climber questa risulterà invece la dimensione perfetta.

 

PLANET EARTH II è il film che vince il CREATIVE EXCELLENCE

Il naturalista britannico David Attenborough, con la regia e produzione di Justin Anderson ci illustrano la vita degli stambecchi di montagna alla ricerca della sopravvivenza. Se la classica battuta dell’alpinista è “la quarta dimensione è la capra”, la quinta… sicuramente è lo stambecco.

Una madre alleva i suoi cuccioli che si confrontano con una discesa mozzafiato; l’occhio del grande fratello non perde tempo e racconta l’increbile aderenza degli ungulati, prima con rumori ed equilibrio e poi con le parole. I frame si fanno tatto, odore, colore e dalla poltrona ci si ritrova in montagna.

Una volpe, magra e famelica, si dà alla caccia, ma lo stambecco che è nei piccoli si risveglia ed essi scoprono cosa sono stati progettati per fare. Il film è una festa del correre in libertà, quella stessa che ognuno di noi sogna, la voglia di esser se stessi e scoprire che ciò che siamo è proprio ciò che ci serve a vivere.

Momenti di tensione si alternano mentre gli animali diventano persone: peccato soltanto per la parzialità del video. Se trascuriamo l’ironia finale, la volpe è presentata come il solito predatore crudele che vorrebbe uccidere dei poveri piccoli che invece sopravviveranno …al contrario dei cuccioli della volpe che probabilmente moriranno di fame.

Questa è la natura, non è parziale, non c’è il cattivo, non è giusta o sbagliata, ma solo in equilibrio oppure no.

 

THE FROZEN ROAD è il magnifico film creato e autoprodotto da Ben Page che si è guadagnato la menzione speciale della giuria 2017 (Banff 2018).

Il protagonista è un giovane inglese ventiduenne che, nel 2014, scelse di attraversare i continenti in bicicletta. Il film documenta il suo viaggio artico in Canada sulle tracce mentali di Jack London. La critica ha dichiarato che le atmosfere che vengono presentate sono molto diverse dal panorama romantico dei libri del leggendario scrittore che viene ripreso più volte mediante concetti e frasi, come se il diario di vita del ragazzo si intrecciasse con quello del giovane Jack. Risulta molto strano il commento considerando che il film invece ritrae esattamente ciò che London esprime nei suoi libri, senza la porzione di politica comunista che metteva a sistema ambente, condizione umana e società stratificata capitalista, ma comprendendo anche quella umana e spirituale.

La fotografia è impeccabile, la realizzazione estremamente tecnica nonostante le difficoltà che portano a pensare che ci sia stato un inesistente lavoro postumo: tutto è in stile “buona la prima” e così dev’essere in questo film realista e verista in cui Ben recita se stesso.

Gli sfoghi scenici in cam appaiono sospinti da una certa teatralità necessaria che disturba un poco il prodotto genuino con un pizzico di “reality”, ma a una seconda analisi, proprio questo è Page, con il grande sogno dei festival, che non viene abbandonato nemmeno nelle foreste tormentate da fantasmi di lupi e gelo.

La conclusione è degna del viaggio con un metadiscorso che parte dalla toilette e arriva al tramonto ai confini del mondo, tra cannoli di ghiaccio sulla barba e ruote che corrono sui sogni. La frase conclusiva propone il classico non c’è felicità senza condivisione… Quando l’ho sentita mi son detto “peccato che ci avesse pensato prima Jon Krakauer  in Nelle terre estreme e non so quante migliaia di persone prima di lui”. Mentre stavo per incupirmi per il flop negli ultimi dieci secondi, ho sentito due commenti in sala di astanti che si chiedevano chi fosse “questo Jack London”. Quindi mi son ricreduto subito: bravo Ben Page.

 

In ABOVE THE SEA ritroviamo Chris Sharma, la sua evoluzione, il suo modo d’essere.

16 minuti semplici e incisivi con regia Josh Lowell. La produzione è il grande ritorno al pubblico non di nicchia della leggendaria Big Up, con la Red Bull Media House, che dieci anni fa teneva incollati allo schermo migliaia di giovani arrampicatori che finalmente avevano un interlocutore che parlava la loro lingua, tra droni, millimetri di roccia,  km di strada percorsa e adrenalina.

In questo come in ogni film 2018 la regia ha fatto un enorme passo in avanti e così di conseguenza la fotografia e ogni elemento interessato, eccellenti veicoli per proporre un messaggio.

Chris, a lungo il più forte climber al mondo, si presenta come lo scalatore in equilibrio con se stesso. Trasferito in Spagna, gestore di una sala di arrampicata, polo attrattivo e proattivo per la comunità climber del pianeta, padre e compagno, prima di ogni altra cosa …lui è Sharma.

In questo video s’impegna nella deep water solo di cui oggi giorno è l’indiscusso protagonista, sia a livello tecnico, sia per filosofia. Nel 2006 l’americano aveva liberato a Maiorca la linea di El Pontas, che aveva dichiarato 9a/9a+ e che risulta non ancora ripetuta. Sharma aveva affermato che fare free solo sul’acqua è il più libero stile: l’arrampicata senza corda in pareti alpine è schiava della possibilità di morire; non si può cadere ed è necessario affrontare linee al di sotto del proprio limite. In sintesi non si è davvero liberi. Scalare sull’acqua permette uno slegarsi totale da ogni convenzione, arrampicando senza compromessi, solo con il proprio corpo, oltre il proprio limite, caduta dopo caduta, sino ad alzare l’asticella ed evolvere il proprio stato d’essere.

Dopo innumerevoli creazioni Sharma si ripresenta in questa nuova versione, con un DWS da affrontare e infine dedicare alla figlia.

Si tratta di una bella favola moderna dal lieto fine, condito dalle inconfondibili urla e dal sorriso sincero. Forse quest’opera darà nuovo lustro e nuovi fan allo scalatore, che di fatto si merita qualsiasi eco giunga nuovamente essendo davvero un esempio per tutti, indipendentemente dalla disciplina.

 

La rassegna si conclude con IMAGINATION: TOM WALLISCH che ha vinto il premio come BEST FILM SNOW SPORT

Regia di David Mossop, produzione Mitchell Scott per la Sherpas Cinema, atleta protagonista Tom Wallisch, campione mondiale di slopestyle nel 2012 e FIS World Ski Champion nel 2013.

Detto questo… dimentichiamo tutti i possibili tecnicismi e protagonismi. Al centro di questo magnifico cortometraggio di 5 minuti ci siamo tutti noi.

Una macchina che corre sull’asfalto tornando a casa e due adulti, due genitori, che discutono torvi in un mondo sordo e chiuso. Un bimbo che guarda fuori dalla finestra e cerca di evadere, di sopravvivere a quell’inferno fatto di oblio, di un rumore talmente assordante da coprire quello della bellezza della vita, da sovverchiare il suono del mondo. Gli occhi del bambino si fanno portale e con due semplici dita, il potere di una mano, egli vola in un’altra dimensione. Tetti, strade, muri, ringhiere, diventano il parco giochi in cui il suo nuovo amico immaginario, il suo specchio, potrà sciare libero da dogmi o forze gravitazionali.

Ed ecco l’atleta che compare e vola alto realizzando i suoi sogni, salto dopo salto, acrobazia dopo slancio in un inseme di piani sequenze e stacchi di inquadratura potenti. Nella dimensione onirica lo sciatore non può cadere e il fruitore ritorna bambino, senza la paura della morte o il protagonismo hollywoodiano. Ci troviamo in un film di Terence Hill e Bud Spencer dove il buono non può perdere ed è senza macchia.

Gran finale con la comparsa di centinaia di occhi di bimbi e quindi da altrettanti mondi di fantasia e possibilità che colloquiano tra loro, con sciatori che volano liberi e colorati.

Quest’anno il BANFF ha continuato sul percorso di evoluzione verso una sceneggiatura che spinga sulle storie piuttosto che sull’energia. La maggior parte degli astanti non è uscita dal cinema carica per l’exploit del giorno seguente. Sembrano lontani i primi festival che davano un’iniezione di elettricità totale al fruitore: eppure questi occhi di bimbo, di filmato in filmato, di storia in storia, che rappresentano ognuno di noi, difficilmente potranno esser scordati dal pubblico.

Christian Roccati
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