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12 Novembre 2020

Alpinismo e Spedizioni · Vertical · Resto del Mondo

Everest: il racconto della rischiosa spedizione nepalese del 2019 per misurarne l’altezza

Khim Lal Gautam al CB dell’Everest nel 2019 mentre controlla l’attrezzatura GNSS da portare in vetta. Foto: SURVEY DEPARTMENT

Mentre i topografi cinesi misuravano la montagna quando il resto del mondo era in lockdown per l’emergenza Coronavirus, quelli nepalesi raggiunsero la vetta nel 2019 proprio il giorno in cui l’Everest fece notizia  per l’incredibile folla di alpinisti in coda sull’Hillary Step

Quest’anno, l’Everest è stato scalato solo una volta, dal versante tibetano. A farlo una grande spedizione cinese che aveva anche un obiettivo scientifico: la ri-misurazione dell’altezza del “tetto del mondo” con una tecnologia all’avanguardia, Made in China. L’intento era completare  un’operazione di misurazione simile che il Nepal aveva effettuato un anno prima, dal suo versante.

Fortunatamente, quella che sembrava una competizione tra i due vicini dell’Everest, sembra si concluderà in una cooperazione e i risultati saranno pubblicati a breve attraverso una relazione congiunta.

Khim Lal Gautam (a sinistra) Rabin Karki (al centro) e Tshiring Jangbu Sherpa sulla cima all’Everest alle 3 del mattino del 22 maggio 2019. Foto: SURVEY DEPARTMENT

L’altezza dell’Everest (Sagarmatha) non è costante a causa dell’attività tellurica. Di qui, la necessità di aggiornarla dopo il terremoto del 2015.

Il Survey Department del Nepal lanciò, dunque, il progetto di misurazione dell’altezza del Monte Everest nella primavera del 2019, attraverso un metodo di rilevamento trigonometrico tradizionale da 12 punti di osservazione intorno alla montagna, oltre a un preciso livellamento, un rilevamento della gravità e il posizionamento dell’apparecchiatura GNSS, Global Navigation Satellite System sistemata su un piccolo e robusto treppiede progettato appositamente per lavorare sulla vetta dell’Everest.

Recentemente, il capo geometra Khim Lal Gautam ha raccontato a NepaliTimes la difficile scalata di allora, complicata dal peso delle attrezzature di rilevamento, e l’epica discesa che ne è seguita.

Il team  lasciò il campo base il 18 maggio e raggiunse il Colle Sud due giorni dopo. Pressati dalla breve finestra meteo favorevole  e dalla folla  presente sulla montagna, partirono per la vetta alle 14:00, 10 ore prima della partenza (mezzanotte) della maggior parte degli scalatori. Raggiunsero la cima alle 3 del mattino, ancora nel mezzo della notte. “Era buio pesto, c’era molto vento, ed ero completamente esausto dopo 13 ore di salita”, ha ricordato Gautam. Tuttavia, in due ore riuscirono a raccogliere i dati necessari.

“Verso le 4 del mattino, quando il cielo da Est ha iniziato ad illuminarsi, in vetta arrivavano gli altri alpinisti – racconta il geometra nepalese – Ecco perché ci siamo alzati presto, in modo che la folla non disturbasse gli strumenti. Ero preoccupato che gli alpinisti potessero influenzare sui dati  che stavamo raccogliendo, ma i membri del nostro team hanno impedito loro di avvicinarsi all’antenna GNSS posizionata in cima. Quando ho capito che avevamo effettuato tutti i rilevamenti necessari, abbiamo raccolto tutto e abbiamo iniziato a scendere. Ho messo l’antenna GNSS per la misurazione dell’altezza principale nella mia borsa, mentre Tshiring si è caricato il resto dell’attrezzatura.”

I topografi iniziarono la loro discesa alle 5 del mattino, ma rimasero intrappolati nella “coda” formatasi all’Hillary Step. “Abbiamo atteso due ore che arrivasse il nostro turno per passare – ha raccontato Gautam – La nostra discesa è stata ritardata dalla folla di alpinisti diretti verso la vetta. Dalla cima alla vetta Sud abbiamo dovuto aspettare per far passare gli alpinisti che si erano sganciati per poi riagganciarsi nuovamente all’unica corda in cresta.”

Verso Colle Sud, la fatica ha preso il sopravvento e Gautam è caduto privo di sensi a 8.200 metri di quota.

“Devo essere rimasto lì sul ghiaccio blu per due ore, fino a quando un altro alpinista mi ha preso a calci per vedere se ero vivo –  ha raccontato – Normalmente, se gli scalatori perdono conoscenza a quell’altitudine e non c’è nessuno che li aiuti a scendere, è probabile che non si sveglino più. È stato quel calcio, e un miracolo, a farmi riprendere conoscenza in modo che quel giorno potessi scendere  dalla montagna e portare giù il prezioso carico di dati nel mio zaino.”

Sono tornati tutti vivi, ma quelle due ore sono costate a Gautam un dito del piede congelato,  in seguito amputato all’ospedale di Kathmandu.

Everest, 2019: lo scatto fotografico di Nirmal Purja all’Hillary Step, divenne virale. ©Nirmal Purja. Fonte: facebook

Quel giorno, un numero record di alpinisti scalò l’Everest dal versante nepalese. Durante quelle lunghe code all’Hillary Step, gli alpinisti rimasero senza ossigeno. Undici persone morirono in quella stagione, otto delle quali tra il 22 e il 25 maggio, principalmente per aver esaurito le forze e per la troppa esposizione in quota. Il  famoso scatto fotografico di Nirmal Purja che mostrava la lunga coda all’Hillary Step, suscitò un’ondata di critiche. L’opinione pubblica rilevò come Everest si fosse trasformato in un triste circo, un cimitero della vanità umana. Per molti altri,  feriti e congelati, è stata una dura lezione. Secondo Gautan, lo stoico geometra, ne è valsa la pena, “non solo per il completamento  di questa storica missione, ma anche per i rilevamenti che ci permetteranno di conoscere l’altezza altezza del Monte Everest”. Il racconto completo

Gli alpinisti del Survey Department in cima alle 3 del mattino per evitare la folla. L’attrezzatura GNSS su un treppiede è in cima dietro gli scalatori.Foto Survey Department