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15 Ottobre 2020

Pràcistèl

Nella mia valle non mancano certo i “massi”. “Erratici” o residui di antichi crolli post-glaciali, hanno caratterizzato la mia giovinezza come punti di riferimento geografico quotidiano. Vi erano il masso-rifugio delle nostre scorribande di dodicenni, il masso delle “ritirate” con la ragazzina di turno, il masso delle feste di fine estate. Vi erano poi quelli dedicati alle arrampicate vere e proprie, a pochi passi da casa. Piuttosto alti, servivano per sperimentare i primi giochi di corda e azzardare le scalate dove era vietato cadere. Lì, una sera, era comparso Gian Piero Motti e aveva lasciato tutti attoniti superando con eleganza uno strapiombo pronunciato, che per noi rimase un miraggio per parecchio tempo. Lì scoprimmo le mitiche scarpette P.A. e i limiti di scarponi e scarpe da ginnastica che alternativamente calzavamo. Come ho già detto più volte, sono sempre stato un “sassista opportunista” e mai uno specialista. Nel 1993 avevo incontrato Angelo Siri e Giovannino Massari a Forno Alpi Graie, due specialisti del bouldering di quegli anni. Tornavo da una bellissima “prima” alla Cresta di Mezzenile e venivo da un biennio in cui l’alta montagna mi aveva completamente assorbito. I massi erano quindi ciò che più distante poteva esserci dai miei interessi in quel momento, ma quando Angelo mi disse che stavano ripulendo dei blocchi a pochi minuti dal paese, la curiosità ebbe il sopravvento. Mi dischiusero le porte di quel loro piccolo mondo fatto di perle di gneiss “granitico”, che io, abitando in valle, non avevo mai notato. Pràcistèl, così è chiamato il margine sinistro idrografico dell’ampio pianoro alluvionale che si estende al fondo della Val Grande di Lanzo. Oltre vi sono solo le alte montagne di confine con la Savoia con i loro piccoli ghiacciai pensili. “Giova” non fu una sorpresa quando si mosse sui massi: leggero ed elegante, sembrava non fare alcuna fatica su quelle bolle rocciose arrotondate dall’erosione glaciale. Fu Angelo a stupirmi, non perché fosse ormai non giovanissimo, quanto perché ignoravo essere, invece, un abituè di Fontainebleau e un “sassista”, attività che aveva sempre alternato alle grandi scalate su ghiaccio e su roccia in compagnia di Gian Carlo Grassi. S’inventò un traverso assurdo su appigli inesistenti, superando con altrettanta maestria un grosso tiglio che da decenni aveva deciso di fondersi in un curioso abbraccio con il masso. Non avevo le scarpette quel giorno, ma di ritorno dalla montagna calzavo dei pesanti scarponi di plastica. Mi dico per fortuna, perché le mie dita inadeguate alle dimensioni di quelle prese e agli svasi mi avrebbero procurato una pessima figura. Mi proposi però di riprendere ad allenarmi un po’ nell’arrampicata pura e di tornarci con calma in ottobre, il mese migliore per il bouldering dalle nostre parti. Non potevo certo immaginare quello che sarebbe successo di lì a poco. Nell’ultima decade di settembre, dopo diversi giorni di pioggia battente a quote piuttosto elevate, si formò un invaso retrostante la morena frontale del Ghiacciaio del Mulinet, che alla fine collassò per la pressione interstiziale. Una massa di ciottolami e sabbie si incanalò nel rio di fusione glaciale del Bramafam, e piombò settecento metri più in basso come una gigantesca bomba sul pianoro di Ruva Piana, anch’esso stressato dalle piogge e soggetto a fenomeni di soliflusso. All’impatto, si aprì una nuova voragine che fece tremare l’alta valle come in un terremoto. La nuova alleanza di rocce, terra e fango riprese la sua corsa distruttiva verso il fondovalle, incanalandosi questa volta nella ripidissima e stretta incisione del Torrente Gura. Come nella canna di un fucile, milioni di metri cubi di materiale esplosero in ogni direzione nel pianoro del Gabi, che la natura sembrava aver messo lì come salvifica valvola di sfogo, prima che la distruzione raggiungesse l’abitato di Forno Alpi Graie. L’amico e preparatore di sci Gianni Codoni, che in quel momento si trovava presso il dirimpettaio Santuario di Forno Alpi Graie, al sicuro, descrisse una gigantesca onda nera alta decine di metri che scendeva dal pianoro. Il paese non ci sarebbe più stato. E invece successe il “miracolo”. L’ondata principale si disperse in quel gigantesco slargo prativo e detritico, e perse la sua forza più devastante quando giunse tra le case. Ci furono danni, ma nessuna vittima. Scomparve il piccolo skilift degli anni settanta, scomparve il vecchio ponte, sommerso dai detriti ma senza crollare, scomparve l’alpeggio dei Gabi e il pianoro cambiò volto diventando “lunare”. Scomparve, spazzata via, anche la metà dei massi che “Giova” e Angelo avevano ripulito e segnato a Pràcistèl. In quei giorni, ero rimasto bloccato nell’adiacente Valle dell’Orco come altri tecnici del soccorso alpino piemontese impegnati in un corso, e ricordo che quando rividi il mio fondovalle il 25 settembre, ebbi l’impressione che nulla sarebbe mai stato più come prima. Come abituare i miei occhi a tanta devastazione? Invece successe. Le forme sconvolte si ammorbidirono progressivamente e la natura riprese i suoi spazi, anche se la grande “cicatrice” del pianoro del Gabi è tutt’oggi ben riconoscibile. Così accadde anche per i pochi massi rimasti a Pràcistèl, e per oltre venticinque anni, pur transitandovi spesso nelle vicinanze, il mio occhio non si posò più su di loro. Nemmeno Angelo vi tornò più, impegnato per un lungo periodo a combattere una malattia che alla fine lo vinse. Alcuni anni fa, decisi così che era giunto il momento di tornare. La scusa fu una giornata ottobrina dal tempo incerto, in cui ripiegare su dei massi comodi e vicini al paese era la soluzione migliore. Le piccole frecce di vernice arancione e verde di Angelo e “Giova” in parte si vedevano ancora, per di più ritrovai un piccolo schizzo che Angelo aveva fatto mappando i passaggi. Ne segnai di nuovi e chiamai alcuni amici “specialisti” che contribuirono a far tornare in vita questo “circuito”. Oggi vi sono circa quaranta passaggi con difficoltà dal 4al al 7B, che richiedono un uso dei piedi esigente, lanci da maestro e dita forti. Adesso torno spesso a Pràcistèl in autunno. Trovo sempre una pace immensa qui, al margine del grande pianoro ferito. Mi ricorda che la vita è un mistero dinamico, dove tutto può cambiare da un momento all’altro, nulla vi è di certo. Le immagini del passato e i ricordi restano vivi, così come gli amici che non ci sono più, ma in questo nostro percorso ci sorprendiamo, stupendoci, di giocare come bambini a reinventarci storie quotidiane che ai più possono apparire insignificanti. Però, è bello così.