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24 Luglio 2016

Riflessioni in punta di dita

DSCN9758E’ fatto noto che riviste e media siano particolarmente sensibili alle mode del momento. La montagna e le discipline a essa legate non sfuggono certo a questa legge di mercato. Fu così nelle metà degli anni ’80, quando l’affermazione dell’arrampicata sportiva e delle competizioni determinò un interesse quasi a senso unico sulle riviste specializzate.  Al mondo della scalata – peraltro in quegli anni ancora in cerca di una sua identità stabile e con l’onda lunga del free-climbing ancora attiva – si avvicinarono centinaia di appassionati.  Le ditte produttrici di “scarpette” da scalata vissero la loro epoca d’oro, così come l’abbigliamento “sportivo”che abbandonava le salopette e i pantaloni con le toppe del decennio precedente per proporre pantacollant e magliette sgargianti. Anche l’alpinismo “tradizionale”, di riflesso, assunse un carattere più sportivo, maggiormente proiettato al raggiungimento del record, del primato, e al suo rapido superamento. Oggi lo “sport” di massa legato all’ambiente dell’alta montagna sembra  per lo più aver lasciato il terreno verticale (fatte alcune eccezioni) e le sue implicazioni legate alle difficoltà oggettive, per concentrarsi sulle prestazioni atletiche e sui tempi di salita. Potremmo affermare che si è davvero riusciti a raggiungere quel concetto di “sport” che tanto ha diviso e creato accese discussioni in questo secolo tra gli appassionati dell’alpe, introducendo l’elemento “gara” che pone fine a ogni fraintendimento. E’ vero, la storia dell’alpinismo contemporaneo è ricca di salite di pareti e di montagne lungo vie, anche difficili, a suon di record, ma l’alpinista in questi casi era semmai in “gara”/competizione con se stesso, non con altri concorrenti né tantomeno rispondeva a dei regolamenti. Oggi, con le gare di skialp e di trail lo sport d’alta montagna si afferma prepotentemente, sia a livello d’immagine sia di mercato. Basta sfogliare alcune riviste specializzate (le poche rimaste nel panorama italiano) e vedere quanto questo fenomeno della “montagna veloce” stia ricreando la stessa situazione d’interesse e di traino che ebbe l’arrampicata sportiva.  Le gare più celebri, di corsa e sugli sci, laureano campioni che ormai sono entrati di diritto nella storia dello sport. Di riflesso, in qualsiasi area alpina è quasi più facile incontrare runner che alpinisti o escursionisti tradizionali. Anche il terreno di gioco amplia il suo confine, e allora è una corsa a salire le vie normali (e non solo) in stile light and speed, le stesse vie che ancora si vedono percorse da decine di appassionati con attrezzatura ed equipaggiamento “pesante” . E’ Moda? Fenomeno passeggero? Alzi la mano chi tra noi, anche in una semplice gita con gli sci da alpinismo o un’escursione finalizzata al raggiungimento di una cima non abbia messo mano all’orologio, provando soddisfazione per i minuti in meno occorsi rispetto a una salita precedente, oppure non abbia in sé provato una profonda soddisfazione nel vedere amici o compagni di gita arrivare un po’ dopo. Chi oggi biasima queste nuove attività sportive legate all’alta montagna, con tutta probabilità, lo fa con una certa punta d’invidia per le prestazioni degli atleti. Ma il punto non è questo. La scalata e l’alpinismo intesi nel senso più tradizionale del termine non conoscono il concetto di “gara”, semmai – la storia lo insegna – quello di “competizione” con sé stessi o con altre cordate nella realizzazione di una prima. Ciò che differenzia l’alpinismo da una qualsiasi altra attività d’alta montagna “sportiva” sta nel significato ontologico più profondo e completo. Nell’alpinismo, infatti, prevale l’aspetto contemplativo ed empatico mediato soprattutto dall’osservazione in senso estetico della montagna e della natura, ovvero il nostro teatro d’azione. Ciò è possibile, si badi, soltanto se lo scopo non è polverizzare un record ma se si vive l’ascensione come uno splendido viaggio – anche interiore – compiuto con la dovuta “lentezza” che sarà imposta, talvolta, dall’ostacolo oggettivo che la natura ci oppone. L’alpinismo nella sua forma più pura ed elevata è senza dubbio quello esplorativo, cioè quello volto alla ricerca di vie nuove in alta montagna, su terreno del tutto sconosciuto. Qui l’alpinista vive il maggiore ricongiungimento con il proprio “essere”, attraversando momenti creativi in cui la fantasia è stimolata al pari di un’espressione artistica. L’alpinismo, in questo caso, raccoglie in sé tutti quegli elementi distintivi che lo pongono in una dimensione ideale e spirituale scevra d’ogni fine utilitaristico. Paura, rischio e incertezza della riuscita sono elementi che in determinati stadi esulano dalla dimensione “sportiva” entrando nella sfera dell’istinto e dell’irrazionale. Certo, la corsa in montagna, lo sci, lo scialpinismo competitivo comportano dei rischi ma esattamente comparabili, per esempio, a quelli del motociclismo, della Formula uno, del pugilato. L’atleta finalizza la sua azione al conseguimento di una vittoria, di un risultato, di un primato. L’azione fisica prevale sulla componente contemplativa e sulla sfera irrazionale. Raramente la velocità lascia spazio a sensazioni di ordine estetico. Anche la scalata, intesa come elemento-azione essenziale dell’alpinismo, può presentare le medesime qualità prima citate che la collochino nell’ambito di una sfera ideale-spirituale. A patto che conservi alcune caratteristiche d’avventura come l’incertezza della riuscita, e senza che un pesante tecnicismo intervenga a limitarne la componente psicologica a favore di quella meramente sportiva o ludica. La scalata in solitaria, senza corda, su  difficoltà anche non estreme, rappresenta anch’essa una forma pura d’avventura e d’esplorazione introspettiva che trascende spesso ogni logica razionalistica. E’ chiaro che in questo caso l’elemento estetico-contemplativo è sacrificato alla concentrazione e alle dinamiche emotive – talvolta imprevedibili – che ne derivano. Arrampicare in montagna accettando pienamente l’avventura e rispondendo a sensazioni di ordine “spirituale” o estetico – creativo, perché non sappiamo prescindere dalla ricerca del “bello” e dalle emozioni che esso ci provoca, ci pone a tutti gli effetti in una sfera che potremmo definire “romantica”. Chi sale le montagne a suon di record, oggi potrà sorridere, talvolta addirittura disprezzare l’ascesi come fatto puramente ideale e romantico. Ne sono perfettamente consapevole. Ma il romanticismo è sostanzialmente un atto d’amore e di sentimento. Dunque l ’alpinismo può essere definito  “un atto d’amore”, gratuito e privo di qualsiasi fine utilitaristico, compresa la salita su di un podio con relativo premio. Ciò non significa negare lo slancio emozionale di certi “atleti” prima della gara e neppure le sensazioni che possono provare al termine della prestazione sportiva, pur compiuta su una grande parete. In un mondo sempre più “veloce”, fatto di numeri, di omologazioni, di regole, si vuole piuttosto difendere  l’unicità dell’alpinismo quale attività umana intellettuale complessa e non meramente “sportiva”. Un’attività capace di liberare l’individuo dalle mode e dalla globalizzazione del pensiero che dilagano attraverso il mondo dei media, riportandolo alla dimensione più profonda dell’io. Una dimensione dove la lentezza è fatto irrinunciabile.