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25 Novembre 2010

Ambiente e Territorio · Alpinismo triestino · Dolomiti · experience · Luciano Santin · Trieste · UNESCO · XXX Ottobre · Ambiente e Territorio

UN LOGO COME UN LEGO®… di Luciano Santin

Il successo del sondaggio che abbiamo lanciato in merito alla proposta del nuovo logo delle Dolomiti Patrimonio dell’Umanità – mentre scriviamo sono più di 400 i voti pervenuti – ha ulteriormente confermato quanto dicevamo, ovvero come le Dolomiti siano realmente sentite come un “bene comune”, delle cui sorti – anche quelle mediatiche – in moltissimi si sentono partecipi.

Ora ci fa ulteriormente piacere sapere che l’argomento è stato ripreso anche in altri sedi giornalistiche, tra cui la rivista “Alpinismo triestino” edita dalla sezione CAI “XXX Ottobre”, che gentilmente ci ha messo a disposizione l’articolo di Luciano Santini qui di seguito riportato, buona lettura!

Un logo serve a individuare un’identità precisa e inconfondibile, tale da generare in chi lo vede un feed back immediato: so di chi stai parlando. Non è importante che abbia attinenza con l’oggetto cui è riferito, prodotto, azienda, organizzazione; i marchi più famosi sono a volte un puro segno grafico (si pensi allo
“sbaffo” che contraddistingue una famosa linea di calzature e abbigliamento sportivo).

L’ideale sarebbe renderlo riconoscibile senza nomi, e qualcuno c’è riuscito (il frutto sbocconcellato che restituisce all’istante il brand informatico), altrimenti ci pensa il lettering, che dev’essere quanto più possibile chiaro e personalizzato. Il tutto – va da sé – confezionato in maniera gradevole e tale da ispirare autorevolezza e fiducia.

Dopodiché occorre farlo vedere, e vedere, e vedere, creando l’associazione (perché, per quanto felicemente realizzate la mela e la virgola di cui sopra, di primo acchito, non possono evocare l’idea di un computer o di una scarpa).
L’importanza del simbolo nel marketing, e in genere nella comunicazione (ma esiste ancora da sola, quest’ultima?) spiega il motivo per cui i creativi del settore guadagnano soldi a palate.

Si sarà capito, credo, che questa lunga e noiosa premessa serve ad introdurre un tema relativamente “caldo” in questi giorni, quello del logo delle Dolomiti, patrimonio dell’umanità.
Tema di rilevanza secondaria, almeno per il momento, rispetto ad altri, di cui si parla su queste pagine – i progetti di scorporo del CNSAS, tanto per citarne uno – ma su cui vale la pena di riflettere, come esempio di iniziative delle quali non si sentiva bisogno e per cui, pure, si sono investite sforzi e risorse. Un piccolo spreco che potrebbe anche preludere a sprechi maggiori.

Ritorniamo al logo. Propugnatore e testimonial primo della necessità di inserire i Monti Pallidi nei siti tutelati dall’Unesco è stato Reinhold Messner, la cui mentalità imprenditoriale è nota tanto quanto lo straordinario talento alpinistico. Il signore degli Ottomila plaude ora al risultato, ma critica l’immagine che si è scelta per rappresentarlo: una sorta di istogramma, o una pila di Lego, che sorge da nuvole stilizzate.
Dice – come tanti altri meno famosi – che gli fa venire in mente i grattacieli più che le montagne.

A chi scrive è tornata in mente la famosa dissolvenza con cui Luis Trenker, in Der verlorene Sohn, sovrappone la skyline di New York alle torri del Sella. Girata ottant’anni fa, epoca in cui i trucchi fotografici erano ancora poco usati, la sequenza riscosse un grande successo. E a piacere fu anche la genialità dell’idea, basata però, su un contrasto tra la solare e gioiosa naturalità dei monti e la speculare negatività dell’ambiente urbano.

In un blog, l’architetto aostano Arnaldo Tranti, autore del bozzetto premiato, riconosce l’ambiguità quale cifra ponderatamente scelta, e rimanendo nel campo delle costruzioni cita le Corbusier, per cui le Dolomiti sono la più bella architettura del mondo. Però poi dice che, malgrado ciò, per «trasmettere un’immagine istituzionale, senza enfasi e senza ruffianerie tra mille colori o fiorellini», si doveva innovare «arrivare a una sintesi senza banalizzare», perché «il mondo dell’uomo è fondato su segni e simboli che devono trasmettere significati
in tempi rapidi. Per poter empatizzare con loro bisogna sforzarsi un po’ e aprirsi verso quel mondo estremamente dinamico, dai contorni sempre più complessi e sfuggenti.

Dobbiamo portarci tutti all’altezza di questa sfida», rifuggendo dal rischio di «chiuderci nel “rassicurante conosciuto” e trasformare il nuovo (o quello che non si comprende) nel male assoluto».
Dunque, innanzitutto è colpa nostra, ci spiega Tranti (che poi ribadisce: «Se la giuria non avesse avuto i miei stessi occhi, non sarei qui a scrivervi». Non siamo aperti, non siamo, soprattutto, all’altezza della sfida, ci bastano la banalità delle Odle, del Brenta, del Campanile di Val Montanaia, le ruffianerie degli alpeggi fioriti.

Forse però possiamo rivendicarla, questa visione ingenua e infantile, e dire che il re è nudo, o meglio camuffato e oscenamente imbruttito nella riduzione del logo. O dire che semplicemente che di questo non c’era bisogno, che il nome Dolomiti è famoso nel mondo e che certe immagini, universali nella loro bellezza, sono riconoscibilissime.
La “fantastica trinità” di Lavaredo la conoscono in molti, anche se non sono appassionati di alpinismo o non sono stati in Italia, così come per sapere del Colosseo o della torre di Pisa non occorre la laurea in storia dell’arte né aver sostato nel Campo dei Miracoli.
E se qualcuno la guarda con occhi vergini ha probabilmente una capacità evocativa ancora più immediata e forte. Tranti, in una recente intervista a L’Adige si stupisce dell’«accanimento a catena», della «follia mai vista in 25 anni di professione». E, in effetti nel sondaggio sul sito Mountain blog, il 93% dei partecipanti si schiera contro il logo (c’è pure una nutrita raccolta di firme contro la sua adozione ufficiale) dicendo nel 65% dei casi che è “inadatto ad esprimere le Dolomiti”.
Un concetto molto equilibrato, nel quale va ricompreso quel 28% che lo dichiara “brutto”, evidentemente in relazione al soggetto rappresentato.

Pur senza conoscere tutti i 300 lavori presentati al concorso, c’è da scommettere che, pur in una loro discutibile graduatoria, stanno tutti dietro l’originale, che è impossibile rappresentare adeguatamente.
Ma qui si tratta non di rappresentare, ma di promuovere, valorizzare, aiutare lo sviluppo.
Al di là delle implicazioni terrorizzanti che questo concetti si portano dietro, quando si applicano ai patrimoni ambientali, l’impressione è che non funzioni neanche sotto questo profilo.
Marcel Duchamp si guadagnò fama immortale applicando due baffoni al labbro superiore della Gioconda. Ma sarebbe stato il primo a giudicare la sua provocazione qualcosa di molto inadatto a celebrare nel mondo l’opera
del maestro di Vinci.

Luciano Santin

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