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27 Maggio 2014

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ARRAMPICANDO HO CONOSCIUTO… LA GM

Tra il dire e il fare, c’è stata di mezzo un’avventura particolare.

Da un po’ di tempo mi stavo interessando alle vie di Oskar Schuster in Popèra. C’erano due vie di ghiaccio a Cima Undici – abbastanza audaci e strane per l’ambiente dolomitico – e una su roccia alla Gobba Grande. Ero affascinato dalla storia di questo eccellente alpinista sassone di Markneukirchen. Avrebbe dovuto fare il medico, ma essendo benestante poté dedicarsi completamente alle montagne ripetendo oltre 700 vie e tracciando una cinquantina di nuove: dalle Alpi Austriache alle Dolomiti, dall’Engadina al Caucaso.

Fu l’inventore della scarpetta con suola di corda, di marchingegni per la protezione e del libretto di vetta. Nel Caucaso partecipò alle spedizioni tedesche del 1903 (quando salì l’Ushba), del 1910, 1911 e 1914. Durante quest’ultima fu sorpreso dallo scoppio della guerra, arrestato e internato in diversi campi di prigionia. In quello di Astrakhan morì nel 1917 dopo inenarrabili sofferenze.

Quella che volevo ripetere in solitaria in quel luglio di anni fa, era la via aperta nel 1891 da Oskar Schuster e Johann Hausberger con la guida Veit Innerkofler sulla parete est di Cima Undici. Un itinerario più pericoloso che difficile, che percorre un canale di ghiaccio e porta alla sommità della Cima Undici Sud. Scariche di tutto un po’ cadono sul Ghiacciaio Alto di Popèra fin dal primo sole. Per cui decido di attaccare all’alba, non dopo le quattro. Ma la serata al Rifugio Berti si è protratta oltre la buona norma e solo alle cinque giungo a toccare le rocce sopra il gelido labbro del ghiacciaio. È tardi; il sole già indora la vetta, tocca le nevi su in alto, qualche piccolo sasso rimbalza per il canale.

Passata la crepaccia e la parete grigia che Schuster definì «un cattivo lastrone da superare con difficile arrampicata», proseguo obliquamente fino ad entrare nel colatoio di neve dura, passato il quale prendo le rocce sulla sinistra. A lato spicca un elegante campanile di roccia gialla che in seguito battezzerò Torre di Tin e alla quale dedicherò una leggenda. Allora era ancora vergine. La salirò il 19 luglio del 1975 con il caro amico Vittorio Lotto di Mestre.

Passata una lastra bagnata giungo al camino nevoso e quindi al secondo colatoio ghiacciato sotto una parete verticale. Superata questa e un altro canale giungo infine ad una biforcazione: un ramo va a nord, l’altro a sud, pieni di ghiaccio durissimo. Prendo quello che si dirige a sud, seguo un ripidissimo e stretto budello, giungo sulla cresta alla sinistra della cima principale.

Il tempo, che all’alba era bello, sta velocemente guastandosi. Verso il Quaternà è già tutto nero; giù, sopra i Brentóni, stanno zigzagando i primi fulmini. Il Comélico quasi non si vede più tant’è scura la cappa che lo ricopre. C’è un ventaccio furioso ma – lo dicevano sempre i vecchi – «se c’è vento non piove!» Difatti, dopo un po’ diluvia e io penso che i vecchi di una volta non ci sono più.

Non mi fido a raggiungere la cima che pure è lì a due passi a 3092 metri; la grande Croce di ferro è percorsa da pericolosi ghirigori di fuoco, c’è un’elettricità nell’aria che spaventa. Meglio lasciar perdere; devo scendere, subito! Poco più in basso, alla base di un torrione rossiccio a 2970 metri circa, so che troverò delle assi di legno – quelle della vecchia e storica baracca detta la Mensola di Cima Undici usata dagli alpini Mascabroni nella Grande Guerra-; saranno senz’altro marce, nere da anni di intemperie, ma ancora utili per una raffazzonata tettoia di fortuna. Le avevo già usate in passato durante una bella e avventurosa traversata di quello stesso monte.

Scendo alla Forcella della Caverna e raggiungo le ripide rocce del canale di Forcella 75; mi condurranno in basso, ai ruderi della Mensola. Sono già bagnato fradicio, ma non mi preoccupa l’umido, quanto i fulmini. Il cielo è talmente coperto che, nonostante siano solo le nove, è quasi buio quando giungo finalmente al terrazzo assieme a un torrentello di acqua e sassi. Poco sulla destra ci dovrebbero essere i ruderi. Difatti giro di là e… sbatto il naso su una parete di metallo, su una “scatola” di lamiera. Cerco di connettere, forse ho perso l’uso della ragione. Penso che, intanto, – visto il tempo tramutatosi in bufera violenta – sarà meglio entrare… poi si vedrà!

Quella “scatola” altro non è che il nuovissimo Bivacco ai Mascabroni eretto da poco a cura della Giovane Montagnadi Vicenza.
Un capolavoro – che apprezzo oltremodo, viste le condizioni in cui mi trovo – piazzato lì in quel Santuario della Natura e della Storia che è la Cima Undici. Solo allora mi ricordo che l’amico Gianni Pieropan, in effetti, me ne aveva parlato, ma non sapevo dell’inaugurazione, avvenuta ancora nel 1968.
Ben riparato, al caldo entro due coperte, con una tazza di te bollente fra le mani, ringrazio la GM per la stupenda iniziativa, ricordo con un pensiero ammirato i Mascabroni e lascio che la bufera si esaurisca.

Fu in questo modo piuttosto avventuroso e fuori dalle leggi normali della conoscenza, cioè arrampicando nella tempesta, che ho conosciuto l’associazione Giovane Montagna. Attraverso la sua attività ad ampio raggio ho imparato poi a stimarla, ad ammirarla come uno dei rari sodalizi alpinistici che ha come obiettivo non solo la pratica della montagna e della tecnica per vincerla e domarla, ma soprattutto coltivare le radici di quei valori umani e spirituali senza i quali non può esistere una montagna vera.

Verso le tre pomeridiane tutto è finito, il sole ricompare e ora sta attraversando la Croda dei Toni; è tornato un apprezzato tepore. Una leggera spruzzata di grandine ha imbiancato la Cima Undici e i suoi satelliti, ma non posso restare lì a contemplare. La famiglia aspetta; a quei tempi non c’erano cellulari per dire: «metti su la pasta che è tutto ok!»; bisognava rientrare a tutti i costi per non mettere in agitazione padri madri spose figli parenti parroco soccorso.

Imbocco il Canalone Zsigmondy che è poco più in là e arrivo senza difficoltà sul Ghiacciaio Pensile. Il programma che mi ero prefissato consisteva ora nel scendere il Canalone Schuster, conosciuto anche come Canalone Omicida, per compiere un cerchio perfetto. Quindi raggiungo la sella fra il Pensile e il Canalone. Questo mi appare subito assai pericoloso. Cambio idea. Sono venuto qui per vivere non per morire! Il Canalone, infatti, scarica senza ritegno; mettersi dentro quel budello è un suicidio. Lo conosco bene, poco tempo prima avevo realizzato la prima salita solitaria.

Anche Oskar Schuster e la guida Heinrich Moser erano arrivati fino qui il 2 luglio 1893, per primi, partendo dal Ghiacciaio Basso di Popèra. Giunti sulla sella i due alpinisti tedeschi dovettero intelligentemente rinunciare a terminare la via (cioè sulla vicina Forcella Alta di Popèra) causa frequenti scariche; ritorneranno l’8 luglio e la completeranno, ma in discesa dal Monte Popèra.

Lascio alle spalle, senza nessuna nostalgia, il Canalone Omicida, scendo per il Ghiacciaio Pensile, raggiungo la Forcella della Punta Rivetti e atterro sul Ghiacciaio Alto di Popèra, proprio là dove ero partito la mattina.
Non è certo la via più facile per rientrare in Comélico dal Bivacco dei Mascabroni di Cima Undici, ma è sicuramente la più corta, alpinisticamente la più completa e probabilmente anche la più logica.
Un “minestrone” di ghiaccio e roccia dai mille sapori.

Italo Zandonella Callegher

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