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11 Ottobre 2010

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ALLA RICERCA DELLO SHANGRI LA Giulia Monego racconta la spedizione in Cina

Sono sola, gli occhi mi bruciano da morire, ma le gambe sono ancora tutte d’un pezzo e mi reggono passo dopo passo negli ultimi metri dell’aleatoria morena che mi guida al campo base.

Il sentierino che ormai conosco bene, è sulla cima appuntita della morena più grande e perfettamente squadrata che abbia mai visto, quella disegnata dal ghiacciaio del Reddomaine in chissà quante centinaia di anni.

Mi volto indietro per vedere se gli altri sono visibili nelle retrovie, stanno scendendo anche loro, ma non sono ancora spuntati nella mia visuale.

Fra poco mi aspetta la tenda, con dentro tutte le mie cose. Non sono molte, ma quando si è in spedizione quelle poche cose che ci portiamo dietro aumentano di importanza e costituiscono il tutto e poco che ci fa sentire a nostro agio. Il rientro al campo è segno di riposo e di successo. Prima penso al primo, poi ci sarà tempo di realizzare ciò che siamo riusciti a portare a termine.

Ciò che mi preoccupa ora sono gli occhi. La luce mi dà ancora fastidio e non vedo l’ora che arrivi il buio. Soffro di una leggera forma di cecità da neve, dovuta al fatto di non aver portato gli occhiali da sole lungo la salita in vetta. Non è grave, ma è fastidiosa. Anche in tenda non c’è riposo dalla luce, ma almeno non mi restano più scalate da fare e posso riposare le vista per un giorno intero.

Proprio quando sono a cento metri dalle tende, scorgo il nostro amico Xin con la sua dolcissima moglie. Lui è l’ufficiale che controlla il corretto svolgimento della spedizione. Poiché qui in Cina si deve ottenere un permesso per scalare le montagne, il compito di Xin, è quello di stare al campo base per tutto il tempo in cui siamo lì nel nostro tentativo di scalata, e accertare che effettivamente non saliamo altre montagne oltre a quella a noi concessa. Sembra un processo un po’ folle, ma da quelle parti del mondo funziona così ed è diventata ormai una routine per tutti gli alpinisti che vengono a scalare da quelle parti.

Quando mi avvicino alla tenda Xin mi scruta con espressione calma. In quel momento comincio a inquietarmi sul come possa fare a comunicargli che tutto è andato bene, che siamo tutti sani e salvi sebbene gli altri non si scorgano ancora.
Io non parlo la sua lingua, il dialetto Tibetano, e lui non parla una parola di alcuna delle lingue che conosco io, perciò mi dovrò arrangiare con la lingua del mondo: qualche largo sorriso e dei gesti ben interpretati da buona italiana fanno al caso mio. Xin mi capisce subito, o almeno sembra, e mi ricambia il sorriso con altrettanta intensità.

Io sono stanca e probabilmente non profumo di buono, ma lui mi capisce e mi lascia il tempo di depositare lo zaino al lato della tenda e sedermi su una roccia a riposare. Jimmy parla cinese, e una volta al campo potrà raccontare meglio a Xin come è andata la nostra scalata del Reddomaine.

Kasha e Ingrid sono le altre due compagne di avventure, che assieme a Jimmy, creano il team per questa spedizione alla ricerca dello Shangri La, che The North Face, il nostro sponsor comune, ha reso possibile.

All’arrivo degli altri, e dopo una ben meritata cena a base di tortellini speck e parmigiano, che avevo preziosamente conservato per l’occasione, ci rilassiamo e lasciamo i ricordi della salita vagare liberi nelle nostre menti, pronti ad essere ricatturarti per condividerli con gli altri. Ci sono sempre dei dettagli che sfuggono a qualcuno del gruppo, o qualche aneddoto divertente che si vuole ricordare. Questi sono i momenti che preferisco dopo una gita in montagna. I ricordi che s’instaurano nelle menti di ciascuno sono diversi e si focalizzano su dettagli differenti. È bello vedere come negli altri si è inscritta nella memoria la stessa identica avventura che ho appena vissuto anch’io. A volte stupiscono le similitudini, altre le differenze.

Io ho passato una giornata talmente memorabile che non voglio dimenticare nemmeno il più piccolo dettaglio né della salita né della discesa.

In questo magico luogo ci siamo arrivati grazie a Kasha, che con il suo spirito esploratore ha studiato un itinerario ad hoc, per soddisfare i nostri spiriti esploratori e desiderosi di nuove sfide.

La prima parte del viaggio era un trekking nella regione dello Yunnan, la provincia a sud ovest della Cina al confine con il Myanmar e con il Tibet nella sua parte settentrionale.

Questa è una regione montagnosa, con caratteristiche molto simili agli altipiani tibetani, con i quali anche la popolazione si riconosce e si sente parte integrante.

Da Lijian, città che racchiude un centro storico prezioso e affascinate, da essere stato fatto addirittura patrimonio mondiale dell’UNESCO, partiamo per un lungo tragitto in auto verso nord. Percorriamo la strada lungo il fiume Giallo, attraversiamo il paese Shangri-La e ci continuiamo lungo il Mekong poi fino al punto più a nord della regione, nell’altopiano di Deqin.

La strada è perfettamente asfaltata anche oltre i 4000 metri, il telefono cellulare ha massima ricezione anche nelle valli profonde… ma come? Non siamo nella vecchia sottosviluppata China conservatrice, lontana dal “mondo sviluppato” dell’occidente e ferma a 50 anni fa? Ebbene no.

Questo viaggio mi ha fatto proprio aprire gli occhi e ripensare ai luoghi comuni e ai pregiudizi sbagliati che avevo sulla Cina. Il cibo, che a detta di molti era cattivo e monotono, si è rivelato un’esperienza golosa e affascinante, ricca di sapori unici e piatti da acquolina in bocca! Le tecnologie non gli mancano e sono piuttosto avanzate direi… visto che sanno costruire edifici di 30 piani a vista d’occhio e le dighe idroelettriche più grandi al mondo. Non ci sarà da stupirsi se nei prossimi anni dovremmo imparare il cinese… se anche solo un terzo della popolazione cinese si “svegliasse” e si affacciasse un po’ più concretamente all’occidente, dovremmo tutti a stare alle loro regole.

Scoperto questo lato impressionante della Cina come nazione, la provincia dello Yunnan che abbiano attraversato si è rivelata un po’ più sugli standard di come me la sarei aspettata. Paesaggio rurale, case mono – familiari di contadini e agricoltori. Terreni coltivati, orti fantastici, animali pascolanti. Di tanto in tanto un paesino più o meno grande, un monastero Buddista, un ponte che attraversa il gigante d’acqua.

A fare da confine con il Tibet si innalzano delle montagne bellissime, sacre ai buddisti. Sono dei picchi innevati che arrivano oltre i seimila metri, candidi e intoccabili. Le Kawa Karpo, tra cui per importanza spicca il Meili , o monte si neve, il più sacro di tutti.

Ogni anno questa catena attira migliaia di pellegrini che ne compiono una circumnavigazione in senso orario come simbolo di redenzione e purificazione religiosa.

I pellegrini non sono dei camminatori esperti, dei trekker, come diremmo noi, sono semplici uomini, vecchi, donne o bambini, che una volta nella vita si dedicano a questo passaggio spirituale molto importante per la loro vita religiosa. Camminano con zaini ricavati dai sacchi per patate rattoppati con corde di canapa a fare da spallacci. Scarpe con suola di gomma liscia e tomaia in leggero cotone, a volte sandali aperti. Non sono certo abbigliati con materiali traspiranti o idrorepellenti, non possiedono giacche di Gore-tex come i nostri capi The North Face.

La pioggia, però, che non ha smesso per tre giorni, non ha risparmiato nessuno. I sentieri scoscesi si sono trasformati in strisce di fango scivolose e poco piacevoli da percorrere. Noi ci spostiamo a piedi, veloci e leggeri grazie ai cavalli e muli che ci portavano i viveri e ipesi maggiori del nostro equipaggiamento da campeggio.

A volte dormiamo in tenda, altre condividiamo con i pellegrini le capanne di legno e teli di plastica che ci riparano della pioggia notturna. Il fuoco che brucia senza sosta all’entrata delle capanne è un simbolo sacro anch’esso, e non è mai lasciato incustodito a spegnersi. Ci aiuta ad asciugare i vestiti bagnati e a riscaldarci, ma è soprattutto un punto d’incontro per scambiare qualche gesto e sorriso con la gente che incontriamo nel cammino.

Jimmy per fortuna è un perfetto compagno di viaggio, e quando si tratta di China,è la persona che chiunque vorrebbe avere con sé. Date le sue origini, parla cinese perfettamente e ci fa da interprete. In queste terre il dialetto, i volti e le tradizioni sono più simili a quelli tibetani che a quelli della Cina imperiale, perciò alcune volte anche lui ha fatica nelle conversazioni, così ci limitiamo e sfoggiare qualche gesto di comprensione universale!

L’esperienza del pellegrinaggio e dei kilometri percorsi tra le dense foreste pluviali, gli altipiani rocciosi e i passi elevati oltre i 4000m assieme a gente così unica e diversa da noi è stata una parte del viaggio che ha avuto fondamentale peso nel rendere questa esperienza unica e completa.

Senza la cena a base di zampe e testa di gallina, il liquore a base di zuppa di pollo, le danze e i canti con la gente del posto, adornati con i costumi locali non sarebbe stato lo stesso viaggio!

L’obiettivo principale della spedizione dunque non era in Yunnan. Ci dovevamo spostare più a nord, nella provincia del Sichuan, per tentare la prima discesa con gli sci del Reddomaine, un satellite della catena montuosa del più famoso Mynya Konka 7556m.

Ora queste montagne non sono molto famose in se, e la bibliografia delle ascensioni, in effetti, ne testimonia quanto raramente siano state scalate.

Il Reddomaine è stato salito per la prima volta nel ’99 e ripetuto solamente nel 2006 lungo la medesima cresta ovest.
Per degli sciatori e sciatrici come noi non c’era dubbio che il nostro scopo non fosse solo quello di raggiungere i 6112m della vetta, ma soprattutto di sciare i 1300 metri di dislivello di innevati pendii esposti e ripidi.

Dalle poche foto di riferimento che avevamo, e dalle scarse informazioni ricavate su internet, il nostro campo base lo volevamo stabilire ai piedi di un lago glaciale, in fondo alla morena del ghiacciaio che scende dalla parete NW. Era il punto più panoramico e dal quale si ha la più bella visuale dell’intera montagna.

La parete NW era la più appetibile per un’ascensione veloce e ripida e per una sciata davvero mozzafiato, ma viste le condizioni d’instabilità del manto nevoso, nei giorni di permanenza al campo base le probabilità di riuscita di quella via erano veramente scarse.

La cresta Ovest invece, quella scalata in precedenza, offre un terreno meno ripido e più facile da individuare, e ci permetterà di salire più in sicurezza. Il nuovo problema che si pone è di individuare un nuovo approccio alla cresta, che dal versante NW non era ancora mai stato provato.

I 2 giorni di trekking al sole per arrivare al CB ci hanno dato buone sensazioni e una ottima visuale della regione montagnosa. La parete NW ci è apparsa per prima, e ci ha lasciato tutti senza parole. È ancora più maestosa che nelle foto e mi fa venire già la voglia di scalarla.

Sistemato il campo, i viveri il materiale, sfruttiamo subito il bel tempo per fare un giro di ricognizione. Individuata una possibile via d’accesso alla cresta, portiamo un carico di equipaggiamenti pesanti da lasciare alla base del ripido pendio innevato che dai 4700m sale costante fino ad un ghiacciaio sospeso ad una quota all’incirca di 5200, 5300m. Un breve tratto di cresta per accedere al ghiacciaio sembra un misto di neve e rocce affilate che non sembrano troppo semplici da scalare, ma che a vista d’occhio sembrano parte dell’itinerario migliore.

Rientrati al campo ci concediamo un po’ di riposo e rimaniamo tre giorni ad osservare gli estremi e repentini cambi del tempo.

Il quarto giorno, la luna è piena, e il tempo sembra cambiare e volgere allo stabile. Non ci facciamo sfuggire l’occasione. Partiamo leggeri dal campo, recuperiamo l’equipaggiamento lasciato in precedenza e ci carichiamo sulle spalle i grossi zaini con il materiale per una notte in quota e due giorni di cibo. Facciamo traccia sulla neve fino in cresta, poi quella sezione di rocce instabili e neve, che sembrava difficile… e appunto facile non era. Il ghiacciaio sospeso è il punto ideale per piazzare il campo alto, e la nostra tenda da un buon colore a quell’angolo di mondo dove non si era mai accampato nessuno prima!

La notte passa tranquilla, quasi troppo e per un pelo non ci svegliamo neanche al suono della sveglia!

La salita è lunga e lenta, a causa della neve profonda, che ci rende faticosissimo fare la traccia. Il più del cammino lo facciamo a piedi, sci sullo zaino, qualche tratto dobbiamo tirare fuori le corde per assicurarci nei punti molto ripidi ed esposti, il resto si tratta di una navigazione tra pianori crepacciati e pendii adiacenti all’enorme cornice che indica il limite della parete NW.

Quando il GPS indica i 6000m, è tardi il tempo è brutto, nevica e il vento non cessa. Non ci sono particolari pericoli nel fare tardi, la luna è piena e con gli sci siamo rapidi a scendere. Ormai sappiamo bene tutti che dovremo usare le pile frontali per ritornare alla tenda e che dovremo dormire un’altra notte e 5300m. Ma quello che ronza nelle nostre teste è di andare fino in fondo e fare l’ultimo sforzo per andare a prendersi le prime curve dalla vetta!

Così infatti è stato, metro dopo metro non ci siamo più fermati e siamo saliti fino dove non c’era più pendio da salire, dove attorno a noi non restava altro che la discesa! Con scarsissima visibilità e la traccia di salita quasi cancellata del tutto dal vento e dalla neve, siamo scesi con gli sci ai piedi lungo tutta la via di salita, deviando solo prima del campo, per evitare una zona rocciosa e arrivare in curve a neve fresca fino alla porta della tenda!

La soddisfazione per aver compiuto la scalata e aver sciato dalla cima del Reddomaine come nessuno aveva mai pensato di fare prima, è stata incredibile. Quello che mi ha stupito di più in fondo è di come ci si metta un po’ a realizzare ciò che si ha fatto.

Anche se per me è stato il record di altitudine mai salito prima e un’esperienza incredibile, non mi sembra ancora di aver fatto niente di eccezionale, e di non poter raggiungere obbiettivi anche ben più difficili in futuro.

La Cina ci ha accolto in maniera calorosa, ci ha fatto scoprire una nuova incredibile cultura, dei nuovi cibi e delle affascinanti tradizioni. Ci ha mostrato le sue bellezze, le sue montagne e la sua natura. Ci ha regalato esperienze irrepetibili e una perfetta spedizione incominciata e finita nei migliori dei modi.

Ingrid, Kasha e Jimmy sono stati i compagni di viaggio ideali e sono ancora incredula di come ogni aspetto del viaggio sia scivolato via senza il minimo intoppo.

Grazie ragazzi, alla prossima!

Giulia Monego

I VIDEO DELLA SPEDIZIONE

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