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10 Ottobre 2008

alpinismo giovanile · storia

LA FOSCA AIARNOLA Prima delle prime…

auroraAuronzo bella al piano stendentesi lunga tra l’ acque
sotto la fósca Aiàrnola…
e di borgate sparso nascose tra i pini e gli abeti
tutto il verde Comélico…

Così cantò il vate Giosuè Carducci nel 1892. Che Auronzo fosse bella e distesa nel piano e che in Comélico le borgate fossero nascoste fra gli abeti era cosa esatta, ma che l’Aiàrnola si presentasse come montagna fosca, beh! questo no, caro Signor Giosuè! L’Aiàrnola è una montagna bella, dominante, panoramica, solare.

Questo era il mio pensiero di bambino. Intanto frequentavo l’ottima scuola elementare di un paesino di montagna, di quelle con il “maestro unico” che ne sapeva più del vocabolario.
La maestra spiegò che “fosca” non significava solo scura, ma anche caliginosa, velata, nebbiosa. Disse che, forse, il vate vide la montagna in un giorno particolare, quand’era coperta da quelle nebbie che sono preludio al brutto tempo.

caola-terze-dosoledoSì, la maestra la sapeva lunga, ma non mi convinse. Così nacque il prurito di salire in cima al Monte Aiàrnola, che vedevo bonario tutti i giorni dalle finestre di casa, per verificare. Sarebbe stata una scappatella di cui andare fieri. Per un pulcino di sette anni scarsi era certamente un’impresa, ma sapevo di farcela. Non avevo paura delle montagne. Mi ero già confrontato con loro salendo il Monte Spina e il Col Quaternà quando invece avrei dovuto essere nei boschi a raccogliere funghi per i genitori.

L’occasione arrivò un giorno di agosto. Gli zii erano da un po’ di tempo a Pra dla Monti, una amena località di montagna a cavallo fra il Comélico e la conca di Auronzo, enorme distesa di prati d’alta quota dove si falciava un’erba medicamentosa che gli animali gradivano moltissimo; una specie di dessert bovino.

I giorni della fienagione erano considerati come le ferie d’agosto in alta montagna, una parentesi allegra fra il primo taglio di luglio e il secondo di settembre giù in valle. “Ferie” perché era l’unica occasione per allontanarsi dal solito tran tran del paese. “Allegra” perché le famiglie si trovavano ogni sera, dopo 16 ore di lavoro, davanti alla baita di una o dell’altra comunità per giocare, chiacchierare, tentare approcci amorosi che non di rado si concludevano con un matrimonio. Il tutto accompagnato dal suono della fisarmonica o dall’ascolto di storielle, spesso inventate di sana pianta per far colpo sul minuscolo auditorio.

Successe che mia madre pensò bene di mandarmi dagli zii per portare una lettera e un po’ di insalata fresca. Era quello che aspettavo.
Esposi il piano all’amico che mi accompagnava. Una visita veloce agli zii e poi su verso l’Aiàrnola.
Tutto facile a dirsi.

Giungemmo sulla radura più alta, la più panoramica, la più amena, a oltre 1700 metri di quota. Qui avremmo dovuto trovare gli zii.

L’Aiàrnola è “subito” sopra, dominante. 750 metri più su, immersa nel blu del cielo.
Sembrerà una cosa studiata ad hoc ed invece è proprio reale: non riuscimmo a trovare la baita dei parenti. Forse le indicazioni della madre erano inesatte, forse non le avevo nemmeno sentite, fatto sta che non trovammo la baita degli zii. Pazienza. Ma ora cosa fare?

“Saliamo l’Aiàrnola, perbacco! Un’occasione così non capiterà più”.

E via per il sentiero che poi si inerpica sotto il monte fino alle prime rocce. Fin qui tutto facile. Un solo problema: bisognava fare presto, era già pomeriggio inoltrato.
Il sentiero diventa traccia, poi sparisce. Dalle ultime erbe si origina un canale friabile che penetra come una gigantesca ferita nelle carni della montagna. È di lì che bisogna salire.
L’amico si ferma, non ha paura, semplicemente non gliene frega niente dell’Aiàrnola; lui è solo un abile cercatore di funghi.

Proseguo da solo. Cosa può farmi di male quel monte!? Nulla.
Salgo per le rocce del canale friabile che non trovo difficile. Mi sto divertendo un mondo. Peccato non abbia gli scarponi, ma solo quegli scomodi sandali di cuoio sopra due piedini nudi.

Infine il canale si fa difficile, c’è ancora della neve là dentro, scivolo. Allora salgo sulla parete di destra. In alto, fra due quinte di roccia, si apre un varco. Qualcuno mi aveva detto che in montagna ce ne sono tanti e si chiamano forcelle.

ormeMentre mi avvicino sento il canto sonoro del vento che sibila fra le rocce. A volte sembra un lamento, poi un acuto lo trasforma in melodia misteriosa. Raggiungo il pertugio, mi sporgo, una brezza violenta mi colpisce in faccia. Salgo a destra spinto dal vento della cresta e raggiungo subito la vetta. Da lì vedo un mondo inimmaginabile, grandioso. Vedo le valli, le montagne che stanno dall’altra parte, i paesi. Mi commuovo perché sembra che questo sia tutto per me. Mi sento felice.

Questa è la mia terza vetta, ma è la prima di roccia dolomitica. Non è una cima come quella della Spina dove ho trovato alcune mucche sonnacchiose; non è come quella del Quaternà, cono certamente molto bello da vedersi, ma coperto di rocce rosse decrepite e vulcaniche. Questa è una Cima con la C maiuscola.

L’Aiàrnola, infatti, è una montagna tutta d’un pezzo, non è una cenerentola, non è “fosca” ed è alta 2456 metri. A lei è toccata la sorte di aprire le porte del gruppo del Popèra, di trovarsi a sentinella di due valli dolomitiche.
Lascio la cima a malincuore. Si sta facendo buio.
Una nuvola nera scende sulla montagna come un cappello. Penso a Giosuè Carducci. Forse non aveva tutti i torti.

A Pra dla Monti è già buio. Giù in valle si vedono i rari lumi dei paesi. Degli zii neppure l’ombra.

Giungiamo a casa quando il bel campanile, con la cupola a turbante che ricorda la sconfitta dei turchi ad opera dei cristiani, scocca le 22. I genitori pensavano che a quell’ora i due piccoli fossero già sul letto, pardon sul fieno, nella calda baita degli zii.

Non c’erano cellulari allora, non li possedevano nemmeno gli americani che avevano vinto la guerra, figurarsi noi in un paesino sperduto fra i monti, con le strade ancora da asfaltare e le lampadine da cinque candele in qualche stanza… Lassù erano ancora i tempi della segnaletica a fuoco e fumo. E sull’Aiàrnola, attorno alla quale ora si era formata anche una fitta cintura di nebbie, non avrebbe comunque funzionato.

Raccontai ai genitori tutta la verità. La cosa era grave, gravissima! Avevo fatto una cosa proibita. “Ma non ho disubbidito – pensavo – sono solo corso dietro a un sogno, che male c’è? Sì, ho perso anche la lettera che dovevo consegnare agli zii, ma in fondo cosa sarà mai!”
E l’insalata? Mangiata. “Vorrete mica che patissi la fame!”

Che la faccenda fosse molto seria mi resi conto quando mia madre si mise a rovistare nel cassetto in cerca del mestolo di legno.

Allora pensai che l’usanza in voga sulle montagne dolomitiche di girare e rigirare la polenta con il mestolo ramaiolo era una pessima usanza.

Quella sera mia madre lo usò a regola d’arte. Con raffinata delicatezza, ma lo usò. Su di me!
Nessun “telefono azzurro” corse in mio aiuto.