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29 Marzo 2015

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Nessuna mollica, solo sassolini

Un passo… anche oggi un piccolo passo in più nella consapevolezza della vita, né più né meno che il cammino di un chiunque.

Oggi ho fatto il mio primo liquore di genziana, con le sue radici. Qualsiasi alpinista d’antan lo conosce, è il più forte amaro che esista, nella versione originale senza alcun granello di zucchero. Ho fatto centinaia di macerati e distillati in vita mia, ma non questo, fino a ora.

Adoro i gusti davvero amari. Mi piace che il dolce sia dolce e che l’amaro sia amaro, come la vita.
Che il dolore sia estenuante, vivo, struggente e che la gioia lo sia davvero, pura, senza alcuna ombra.

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La prima volta che assaggiai la genziana ero al rifugio Arbolle, con mio padre, per andare all’Emilius, la montagna di Aosta, il picco della decima ora. Un ramingo diede a tutta la tavolata il contenuto della sua fiaschetta. Ventun persone e solo in tre ne prendemmo un pochino, senza riempirci il ditale.

Risultato? Il caos ha il senso dell’ironia…

Le uniche persone a cui piaceva davvero quell’amaro erano le stesse che si erano graziate di una dose educata. Avremmo svuotato ogni altro contenitore volentieri: i bicchierini degli altri astanti invece rimanevano colmi, perché nessuno riusciva ad assaggiarne più di qualche goccia. Anche lassù gli uomini volevano metter la competizione invece di godersi il momento, e ne rimasero castigati.

Anni dopo sorseggiai la genziana del mio amico Andrea, fortissimo arrampicatore, apritore di oltre 1250 linee di scalata. Il suo liquore era come lui, lo rappresentava.
Ero nuovamente l’unico a cui piaceva tra i miei consoci di scalate. Ogni giorno gattonavo in verticale e ogni sera il mio ospitante mi regalava quel nettare di fiele, sino all’ultima notte, in cui mi fece l’onore della sua scorta stagionata personale, servita insieme a un buon piatto di lumache.

La scuola francese vorrebbe una cucina a quattro contrasti: dolce e salato, duro e morbido.
Quella sera fu così nei discorsi e persino nel cibo.

Ho talmente tanti ricordi… talmente tanti.

Talvolta passeggio nei vicoli e mi confondo tra le tenebre perché siano i miei pensieri a precedermi, al di là di me, cosicché possa vedere dove mi conducono, io la loro ombra in una notte senza luna.

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E mentre scrivo, la luce blu del memento mi attraversa dal passato… investe e non se ne va. Vorrei credere che quest’odore giunga da lontano, da una mente che mi pensa, ma è solo il mio placebo di una mancanza.
Un dolore atroce che materializza paure.

E così rimembro un film di tanto tempo fa, “Le fate ignoranti”,;
ricordi di altri che con me niente c’entrano e mi lascio prendere dalle emozioni più che dalle risonanze.

“A Massimo,
per i nostri sette anni insieme,
per quella parte di te che mi manca e
che non potrò mai avere,
per tutte le volte che mi hai detto “non posso”
ma anche per quelle in cui mi hai detto “ritornerò”…
sempre in attesa,
posso chiamare la mia pazienza “amore”…
La tua fata ignorante.”

Non sono così…
Lascio che il dolore atroce mi ferisca, crei cicatrici che seguirò quando la luce giungerà ancora, come i sassolini di Hansel e Gretel, per condurmi fuori dal bosco, per indicarmi la via di casa, quale che essa sia.

Guardo ancora la genziana, non mi basta… Conosco il sogno del suo gusto e quindi la creo e la creo ancora.
Non mi basta mai, sempre Oltre. Tendere all’Oltre… quello è il posto in cui son fermo e seduto, mentre tutto il mondo si muove all’indietro velocissimo.

Grazie alla Vita.

Christian Roccati
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