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5 Novembre 2010

Racconti · racconti · viaggi · Yosemite

OTTO VOLTE YOSEMITE

Dopo la prima esperienza del 1982, nel maggio del 2010 sono tornato nella valle incantata della California: lo Yosemite non finisce mai di stupire!

Oggi vi propongo il diario di viaggio di quest’ultima esperienza:

Noleggio una piccola automobile e mentre esco dal parcheggio sotterraneo del rent-car dell’aeroporto di San Francisco sento una sensazione quasi di solitudine. È questione di un attimo, poi, appena imbocco la strada che mi porterà direttamente nella valle più bella del mondo, mi pervade un forte senso di libertà.

Quattro ore di viaggio, tra musica country e i paesaggi che amo; rifletto sul fatto che quando si è in tanti si sbaglia sempre strada perché tutti pretendono di sapere. Al parcheggio del Camp Four trovo Santiago e Olindo e subito dopo Nick, un ragazzo olandese conosciuto l’anno precedente a Indian Creek. Scopro che c’è anche Cristoph Heinz ed altri alpinisti che conosco: i presupposti sono buoni per una piacevole permanenza.
L’idea è quella di vivere l’arrampicata giorno per giorno senza essere ossessionati da mete troppo ambite ed impegnative.

Nella valle di Yosemite ci sono già stato varie volte, ma devo dire che senza il pensiero del “Cap” si sta meglio, anche perché ci sono un sacco di strutture bellissime e ricche di vie stupende. Così scopro, vergognosamente dopo quasi trent’anni, la fantastica Serenity Crack: quattro tiri stupefacenti e nemmeno troppo facili che salgo con Marco. Poco materiale, petto nudo e pantaloni corti, niente idee di bivacchi o salite impegnative e la sicurezza di una buona bistecca al campo la sera. Scopro un altro lato della valle, un’altra dimensione che apprezzo, un modo di fare alpinismo diverso e piacevole, lontano dalle ossessioni.
Anche salire tratti di vie famose non è male, ad esempio ormai è un classico scalare i primi 10 tiri della Salathè per poi calarsi alla base seguendo le corde fisse sotto il cuore. Dieci tiri bellissimi e difficili ai quali è stato dato anche un nome come se si trattasse di una via completa (free last mi pare). Non si arriva da nessuna parte, ma si scala su un deserto enorme di granito bianco. Qualche anno fa l’avrei considerato blasfemo, ma ora penso di potermelo permettere, almeno per l’anzianità; chissà cosa ne penserebbe Royal Robbins?


Data la stagione e le abbondanti nevicate primaverili il Tayoga Pass e la strada del Glacer Point sono chiusi quindi ci troviamo un po’ intrappolati non potendo scappare velocemente verso i territori più caldi ad est in caso di cattivo tempo; inoltre il meteo piuttosto instabile e le temperature basse non agevolano l’approccio alle grandi montagne. Quindi il nostro vagare per falesie o pareti non troppo alte non mi fa sentire minimamente in colpa, anzi, mi fa sentire libero. Sto inoltre perfezionando la mia tecnica di incastro in fessura, cosa alla quale tengo molto. Stavolta non voglio avere progetti precisi ne cime da scalare per forza ma solo il desiderio e la voglia di arrampicare nella valle più bella del mondo.

FRAMMENTI DI VIAGGI PASSATI:
IL RACCONTO DI AVVENTURE SIGNIFICATIVE

Attività in Yosemite di Manrico Dell’Agnola:

1982 The Nose a El Capitan
Robbins Half Dome
Bircheff-Williams Cathidral Rock (Prima italiana) con Lucio Bonaldo
1991 Salathè a El Capitan (in giornata con 5 fisse) con Ivano Zanetti
Snake Dike sull’Half Dome e varie al Tenaya Lake con Antonella
Giacomini, Marco e Ivano Zanetti
1996 Triple Direct a El Capitan con Nobuhiro Sushi
1999 Zodiac a El Capitan con Giuliano De Marchi
Salite più corte nella Tyoga area con Antonella Giacomini
2008 Tangerine Trip a El Capitan con Giuliano De Marchi, Bruno
Boventi e Mauro Bolognani.
2008 Mescalito a El Capitan con Francesco Gherlenda
2009 East Battres a El Capitan con Mosè Pinzon
2010 Varie salite stupende ma più corte del Capitan, dai monotiri alle 15 lunghezze, sui Cathidral, Serenity Crack e parte bassa della Salathè.

NOSE 1982
Il mattino alle cinque eravamo già in cammino verso la parete. Scattai con la mia Nikon FM una foto allo spigolo. Anche i rullini erano contati: tre Ektacrome 64 ASA da 36 pose dovevano bastare per quasi due mesi, quindi ogni “clic” doveva essere ponderato e sicuro, non potevo permettermi di buttare via nemmeno un fotogramma.
Il nostro bagaglio era ridotto all’osso: sacchi piuma, qualche fetta di pane, un barattolo di schifosissima margarina e pochi litri d’acqua. Il tutto stava dentro ad un piccolo e vecchio zaino Invicta che il secondo portava in spalla. Altro che sistema big wall.
Dopo uno zoccolo di 50 metri cominciava la via. A partire fu Lucio: il tempo era impeccabile e la temperatura ottima. Canottiera, capelli lunghi tenuti fermi da una fascia, roccia bianca di El Cap, fessure infinite che si alzavano verso il cielo della California: eravamo entrati nel mito.
Levandosi, il bong fece descrivere alla corda una strana asola che mi finì tra le gambe e al momento di entrare in tensione mi capovolse a testa in giù. Vidi come una grande scintilla e mi ritrovai appeso molto più in basso. Avevo la sensazione che lungo il collo e sulla schiena mi colasse giù dell’acqua calda. Istintivamente portai le mani alla testa, non era acqua ovviamente, ma un liquido rossiccio e dall’odore di fritto. Non ebbi paura e per alcuni attimi pensai che quella “cosa” fosse materia cerebrale e che mancasse poco alla fine. La morte non arrivò, ma arrivò dal basso un urlo da Lucio accompagnato dal consiglio di mettere magnesio sulla ferita; forse non si sarebbe disinfettata ma senz’altro asciugata”.

ZODIAC 1999
Su El Cap non ci sono vie di mezzo, si esce dall’ultimo strapiombo e finisce tutto, si è immediatamente catapultati nel mondo orizzontale. Scoiattoli, alberi, un bosco incantato e alle proprie spalle il baratro. Oltretutto a quell’ora lassù c’era il sole mentre la parete sprofonda nell’ombra e nel vento; sembrava di uscire dall’inferno. Dopo aver bloccato le corde, ho recuperato il saccone, dato l’ok a Giuliano e mi sono slegato. Ridevo da solo perché quei quattro giorni appeso avevano reso il mio equilibrio precario. Saltellavo barcollando, ridevo e cantavo in maniera isterica; provavo con un piede solo, facevo un balletto e cadevo, sembrava non fossi più capace di camminare? A gattoni come un bambino mi avvicinai ad un albero e mi sedei beato. Chi ha provato queste sensazioni, anche se non sa tradurlo in parole, forse ha capito il perché dell’alpinismo.
L’Half Dome davanti a me era infuocato e velato dalla foschia che sale dalla valle. Tolsi il mio vecchio Galibier, mai fuori moda, mi sfilai i guanti ormai logori e guardai le mani gonfie e sporche di quel misto di alluminio, sabbia granitica e sangue secco. Un leggero e fresco venticello contrastava il calore degli ultimi raggi di sole. Ero sulla cima di El Capitan: un sogno? O la fine di un sogno? Non sapevo se ridere o se piangere; mi alzai traballante e mi guardai attorno. Un altro viaggio era finito
“.

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