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12 Aprile 2013

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Ricordando un “maestro”

Ho parlato spesso dell’importanza e della fortuna di avere buoni maestri in alpinismo. Non voglio con quest’affermazione riferirmi ovviamente ai “maestri tecnici”, da cui si potranno apprendere astuzie e perizie certo utilissime. Mi riferisco invece a coloro che, direttamente o indirettamente, sono capaci di tracciare in noi “le vie dell’anima”, ben più importanti e durature delle grandi scalate che avranno segnato la storia dell’alpinismo e le nostre ambizioni emulative giovanili. Sono “le vie dell’anima” che spesso indicheranno la strada al nostro innato desiderio d’elevazione, che si realizza assai di più con il cuore che con la corda. Certo ci vorranno degli anni per capirlo, e solo allora sapremo ridimensionare la nostra apparente esigenza primaria “del salire fisicamente”.
Gian Carlo Grassi fu indubbiamente un propulsore della mia maturazione alpinistica avvenuta sul finire degli anni ’80, periodo che coincise con il mio servizio militare nelle truppe alpine. Nel biennio 1987 -1989, Grassi realizzò una delle più floride campagne alpinistiche delle Alpi Graie Meridionali. Il sacro fuoco esplorativo che lo pervase in quegli anni, portandolo all’apertura di un numero incredibile di itinerari su roccia e ghiaccio, avrebbe negli anni successivi contagiato anche me. Certo, la mia si sarebbe rivelata un’attività infinitamente più modesta su quelle montagne ma, ancora oggi, se guardo indietro, non posso che riconoscervi il seme di quella passione che egli seppe indirettamente infondermi. Una passione che trovò la solida base spirituale che avevo costruito con l’esempio e con gli insegnamenti di Gian Piero Motti. La simbiosi totale con l’elemento naturale che Gian Carlo Grassi seppe instaurare con gli elementi dell’origine del paesaggio naturale, in particolare la roccia e l’acqua (ghiaccio), è fatto impossibile da spiegare. Non si può raggiungere una tale armonia con i luoghi amati se non si possiede una sensibilità ancestrale, arcaica, che forse fu propria solo degli uomini dell’antica civiltà dei contadini – pastori. Come l’amico Motti, anche Gian Carlo fu un inguaribile romantico, un sognatore ed un visionario. Ebbe però dalla sua anche la capacità di non prendersi troppo sul serio, anche quando creava dal nulla delle salite destinate a diventare epiche.
Satirico, pungente e diretto, Grassi si circondò di amici ed estimatori, il cui affetto sarebbe sopravvissuto anche alla sua scomparsa avvenuta prematuramente nell’aprile del 1991. E’ bello però ripensare a Gian Carlo ripescando i piccoli episodi, quelli che forse non compariranno mai sui “grandi libri”, sulle pagine agiografiche o di circostanza. Sono le testimonianze più sincere, il cui vivo ricordo quasi ci permette di fare un salto indietro nel tempo, creando l’illusione che il “maestro” sia ancora qui, tra noi.

La “Masca dou Ciapel”

Era l’inizio dell’autunno del 1988. Prossimo al congedo, la sera era per me consuetudine passare poco prima della chiusura dal negozio di articoli per la montagna dei Fratelli Ravaschietto a Cuneo. Qui, un giorno, incontrai Gian Carlo che aveva portato alcune copie del suo recentissimo “Sogno di Sea”, la topo-guida delle arrampicate nel Vallone di Sea, un luogo a me assai famigliare. Lo acquistai subito e, nel mentre, fui da lui riempito di foglietti dattiloscritti di relazioni di nuove vie che, di fatto, rendevano la guida appena uscita in qualche modo già “superata”. Tale era la messe delle “aperture” di Gian Carlo! Tornato a casa divorai letteralmente quel libro andando alla ricerca spasmodica della collocazione di tutti quei tracciati. In un freddo pomeriggio di inizio autunno, salito un po’ tardi e da solo nel vallone sospeso di Leitosa, trovai lungo la debole traccia di sentiero un cappello di lana in stile “andino”, alquanto infeltrito. Ignorando che si trattava dell’inseparabile berretta di Gian Carlo, mi chiesi chi potesse averlo perso in quel vallone così sperduto tra le nebbie. Al mio ritorno decisi di riportarlo a valle. Poco sotto il santuario di Forno Alpi Graie, prima che i prati fossero in parte cancellati dall’alluvione del 1994, vi era una curiosa stele arrotondata detta “pala dal mascas” (stele delle masche). Convinto che costituisse un buon punto di ritrovo e soprattutto visibile per chi lo aveva perso, ve lo infilai sopra.
L’imbrunire e la natura del luogo rendevano a dire il vero, il curioso pupazzo un po’ inquietante.
Gian Carlo era salito in Leitosa con Marco Fassero per aprire una nuova via alla Cresta della Cittadella e non si era accorto che nel lungo avvicinamento aveva perduto il cappello posizionato sulla patella dello zaino, forse perché arpionato dal ramo di un ontano. Quando lo ritrovò ormai a notte fatta su quel curioso sasso monolitico, restò alquanto sorpreso. All’Albergo Savoia, celebre ritrovo degli scalatori a Forno Alpi Graie, dove Grassi era di casa e conosciutissimo, la signora Ines Teppa (la famosa “Nonna Ace”) udita la storia affermò che doveva trattarsi di una mascrogni, uno scherzo tipico delle masche che poco tollerano coloro che si attardano nei loro luoghi oltre il calar del sole.
E nacque così a Forno la diceria della Masca dou Ciapel (Masca del Cappello), per un brevissimo tempo però, perché il sottoscritto pochi giorni dopo incontrò Gian Carlo in parete con il caratteristico cappello in testa.
La mascrogni fu così svelata e il vallone di Sea perse una possibilità in più per nutrire la sua già enorme aura magica.