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22 Dicembre 2025

Ambiente e Territorio · Cultura · Travel · Wellness

Dr.Vanoni: i sogni di un bimbo, il viaggio del medico d’alta quota

Care amiche e amici,
eccoci nuovamente qui per un altro momento importante con il quale parlare con un altro grande esponente del mondo montagna. Oggi ci troviamo con una vecchia conoscenza, in quanto queste pagine hanno ospitato le sue videoconferenze e molti momenti importanti per accrescere la comune erudizione e quindi la sicurezza in ambiente.

M riferisco ovviamente all’amico Dr. Luigi Vanoni, Laureato in Medicina e Chirurgia, un uomo che da sempre ha intrecciato la passione per la montagna e lo sport con la sua professione. Ha approfondito la medicina di montagna con corsi avanzati in Italia e in Nepal, fino a 5.545 metri di quota, e con Master Internazionali in Medicina di Montagna già medico di spedizione e direttore di ambulatori, accompagnando come medico gruppi e individui su vette come il Kilimanjaro (5.895 m), il Monte Rosa – Capanna Regina Margherita (4.554 m) e partecipando a progetti scientifici legati all’alta quota e all’endurance. Ha supportato alpinisti con condizioni mediche delicate, atleti estremi in spedizioni record e team sportivi professionisti, inclusi piloti di motocross per campionati mondiali e Rally Dakar. Potrei raccontare di lui per ore, ma preferisco parlare con Luigi e scoprire l’uomo!

Quali sono stati i tuoi principali lavori con gli atleti e gli appassionati quest’anno?
Quest’anno il lavoro con atleti e appassionati è stato particolarmente variegato e coinvolgente. Ho seguito diversi atleti non solo nella preparazione delle loro stagioni agonistiche, ma anche nei percorsi di adattamento e preparazione all’alta quota, un ambito che richiede attenzione, gradualità e una profonda conoscenza delle risposte del corpo. Accompagnarli in queste fasi, osservare come migliorano la consapevolezza dei propri limiti e delle proprie potenzialità, è stato uno degli aspetti più stimolanti. Parallelamente, ho lavorato con molti appassionati di montagna che desideravano affrontare sfide personali, dalle prime esperienze su terreni più tecnici fino a progetti ambiziosi in quota. Con loro il lavoro è stato un intreccio di valutazioni cliniche, preparazione fisica e momenti formativi, spesso svolti direttamente in ambiente, dove teoria e pratica si incontrano in modo naturale. Non sono mancati, inoltre, gli impegni legati alla divulgazione scientifica: conferenze, attività educative e contributi tecnici che hanno occupato una parte significativa del mio tempo, permettendomi di condividere conoscenze e di confrontarmi con realtà diverse.
È stato complessivamente un anno ricco, in cui ho potuto unire più dimensioni del mio lavoro: la clinica, la formazione, la preparazione atletica e quella specifica per l’alta quota, fino al ruolo di vicepresidente della Commissione Centrale del Club Alpino Italiano, che mi ha dato l’opportunità di contribuire in modo più ampio alla cultura della montagna. Un percorso intenso, ma profondamente gratificante.

Come si sta evolvendo il tuo lavoro di medico di montagna e anche di preparatore?
Negli ultimi anni sto osservando — e contribuendo a vivere in prima persona — un’evoluzione profonda nel modo di intendere la medicina applicata allo sport e alla montagna. Si sta andando verso un’integrazione sempre più stretta tra medicina, prevenzione e preparazione fisica: non si tratta più soltanto di curare un infortunio o risolvere un problema specifico, ma di accompagnare l’atleta e l’appassionato lungo un percorso che tenga insieme salute, performance e sicurezza. È una visione più ampia, più matura, che considera la persona nel suo insieme e non come la somma dei singoli aspetti medici o atletici. La tecnologia sta giocando un ruolo importante in questo cambiamento. Oggi è possibile monitorare in modo molto più preciso il comportamento del corpo, sia in ambulatorio sia direttamente in quota. Strumenti portatili, sistemi di valutazione avanzati e nuovi presidi permettono di comprendere come l’organismo reagisce a fatica, ipossia, dislivello, freddo. Questo rende il lavoro sempre più personalizzato e, di conseguenza, più efficace: ogni valutazione diventa un tassello che aiuta a costruire un percorso su misura. Parallelamente sta crescendo l’interesse verso l’altitudine e la consapevolezza dell’importanza di arrivare preparati alle proprie sfide, qualunque esse siano. Che si tratti di una semplice escursione o di un progetto d’alta quota, sempre più persone desiderano conoscere a fondo come funziona il proprio corpo in situazioni estreme e come prevenire i rischi, migliorando al tempo stesso la propria prestazione. Tutto questo si riflette in un aumento significativo della frequentazione dei centri di medicina di montagna. Non sono più luoghi “di nicchia”, ma spazi in cui gli appassionati cercano risposte, sicurezza e strumenti per vivere la montagna in modo più consapevole. E, da parte mia, vedere questa attenzione crescente è stimolante: significa poter unire scienza, esperienza sul campo e passione, con l’obiettivo comune di affrontare la montagna — e la quota — in modo più preparato, più sicuro e più rispettoso dei propri limiti e delle proprie potenzialità.

Hai sempre sognato di fare questo mestiere?
Forse sì, anche se in età giovanile non ero consapevole che sarebbe stata questa la strada che avrei percorso. Chiamarli “interessi” sarebbe limitante: la medicina, la montagna e lo sport sono passioni che hanno preso forma in momenti diversi, alcune in silenzio, altre con impeto, ma tutte oggi abitano stabilmente i miei pensieri e le mie emozioni. La montagna, soprattutto, è una compagna di lunga data. È un’eredità di mio padre, una passione che negli anni non ha fatto che crescere, come un sentiero che continua a salire senza mostrare ancora la sua cima. A un certo punto ho sentito il bisogno di unire queste passioni, di trovare un filo che le tenesse insieme. L’ho trovato nella medicina di montagna, una scoperta che mi ha aperto un nuovo orizzonte. Ogni aspetto di questa disciplina mi affascina, ma è l’alta quota che, fin dal primo momento, ha acceso la mia curiosità. In essa ritrovo una sorta di armonia: lo studio delle risposte del corpo alle sfide dell’ambiente alpino si intreccia con quella spinta verso l’esplorazione e il mettermi alla prova che provo quando salgo in montagna. È lì, in questo equilibrio, che le mie passioni convergono e continuano a guidarmi.

Come è nata l’idea specifica di questa tipologia di lavoro medico?
L’idea di dedicarmi in modo specifico a questa tipologia di lavoro medico è nata quasi naturalmente, nel momento in cui, terminata la mia formazione, ho iniziato a confrontarmi con la realtà quotidiana della montagna e con le persone che la frequentano. Mi sono reso conto che esisteva un bisogno reale: molti si avvicinavano all’ambiente alpino con entusiasmo, ma senza un adeguato supporto o le conoscenze necessarie per farlo in sicurezza. Osservando queste situazioni, ho capito che la medicina poteva avere un ruolo diverso, più vicino alle persone e alle loro esperienze, capace non solo di curare ma anche di prevenire, accompagnare, educare. È lì che ha preso forma l’idea di dedicare una parte significativa della mia attività proprio alla medicina di montagna: un ambito in cui posso unire clinica, passione personale e desiderio di offrire un aiuto concreto a chi vive — o vuole scoprire — la montagna. Da allora questo percorso si è ampliato, evoluto, arricchito di incontri e nuove sfide, confermandomi ogni giorno che c’era davvero spazio per un approccio più consapevole e preparato alla frequentazione dell’ambiente montano.

Quando hai capito che questa sarebbe stata la tua strada? Raccontaci un aneddoto.
Ho capito che questa sarebbe stata la mia strada durante una spedizione in alta quota – in Nepal – in un momento che all’inizio sembrava solo uno dei tanti imprevisti che capitano quando ci si muove in montagna. Uno dei membri del gruppo aveva iniziato a manifestare sintomi legati all’altitudine: nulla di drammatico, ma abbastanza da mettere in discussione la sicurezza dell’intera salita. Ricordo la calma necessaria per valutare la situazione, le decisioni da prendere con rapidità e lucidità, e soprattutto la consapevolezza che quella preparazione medica, costruita negli anni, stava facendo la differenza. Vedere come poche scelte corrette, prese al momento giusto, potessero cambiare completamente l’esito della giornata mi ha colpito più di quanto avrei immaginato. È stato lì, mentre la montagna ci costringeva a rallentare e a ripensare il nostro passo, che ho avvertito con chiarezza un senso di direzione: il mio posto era esattamente in quel punto d’incontro fra scienza e avventura, tra persone che cercano i propri limiti e montagne che li mettono inevitabilmente alla prova. Da quel momento, tutto il percorso successivo ha iniziato ad assumere un significato diverso, più preciso, quasi inevitabile.

Sei anche un alpinista: quest’anno hai aggiunto alla tua collezione il Kilimanjaro con la salita in tre giorni dalla Rongai Route. Raccontaci le tue emozioni per la tua prima volta.
Affrontare il Kilimanjaro per la prima volta, è stato un miscuglio di emozioni difficili da incasellare. Fin dai primi passi sulla Rongai Route sentivo una curiosità profonda: tutto era diverso da ciò a cui sono abituato sulle Alpi — la vegetazione, la luce, i volti delle persone che incontravamo lungo il cammino. A questo si aggiungeva la responsabilità di essere medico di spedizione, un ruolo che ti fa osservare ogni dettaglio con un’attenzione particolare, senza però togliere spazio alla meraviglia di ciò che stai vivendo. Salire un vulcano che domina l’intero continente africano dà una sensazione unica: è come muoversi su una montagna che racconta storie antichissime, fatta di silenzi, polvere e orizzonti che sembrano non finire mai. E poi c’è stata la gioia più semplice e primordiale: quella del camminare. Passo dopo passo, senza fretta, con la percezione costante che ogni metro conquistato ti avvicinasse a qualcosa di molto più grande di una semplice vetta. L’arrivo in cima, all’alba, dopo soli tre giorni di salita, è stato un momento che porterò sempre con me. L’aria era sottile e fredda, ma il cielo aveva quella luce che solo certe mattine d’alta quota sanno regalare. Guardare l’Africa distendersi sotto l’Uhuru Peak è stato come ritrovarsi improvvisamente immersi in una quiete immensa: una sensazione di pace che ripaga ogni sforzo, ogni ora di fatica, ogni dubbio. Ricordo in modo particolare l’ultimo tratto: il gruppo che avanzava, in silenzio, con un ritmo che sembrava unire tutti sotto lo stesso respiro. In quei minuti sospesi, mentre il mondo attorno si illuminava lentamente, ho percepito il vero senso della spedizione: la condivisione, la determinazione e il rispetto per la montagna. Emozioni intense, difficili da descrivere pienamente, ma che hanno reso il Kilimanjaro un’esperienza che resterà impressa dentro di me per sempre.

Come medico di spedizione, ma anche come partecipante: come hai vissuto il tuo mestiere in quota?
Vivere il mio mestiere in quota significa entrare in una dimensione diversa, in cui tutto si amplifica: le sensazioni, l’attenzione, persino il modo in cui osservi le persone accanto a te. L’altitudine rende ogni gesto più consapevole e ogni valutazione più delicata. Da medico di spedizione devi essere sempre vigile, pronto a cogliere segnali che, a quote più basse, passerebbero inosservati; allo stesso tempo sei un compagno di salita, parte del gruppo, parte della fatica e delle emozioni che si condividono passo dopo passo. È un equilibrio particolare, quasi un doppio ruolo: da un lato la responsabilità di prenderti cura degli altri, dall’altro la necessità di conoscere molto bene i tuoi limiti, perché in quota non puoi permetterti di diventare tu stesso un problema da gestire. Questa consapevolezza ti tiene ancorato alla realtà, ti ricorda che essere medico non ti rende immune alla montagna, ma ti invita a muoverti con ancora più rispetto. Esperienze come questa arricchiscono profondamente. Permettono di toccare con mano tutto ciò che nella pratica quotidiana si studia e si insegna: la fisiologia dell’altitudine, la prevenzione, la gestione dei piccoli segnali che, se colti in tempo, cambiano il destino di una salita. In montagna la medicina non è solo teoria o protocolli: è presenza, ascolto, capacità di adattarsi alle condizioni che cambiano e alle persone che hai accanto. È una medicina che cammina con il gruppo, che respira la stessa aria rarefatta, che si sporca di polvere e di ghiaccio. Ed è proprio questo che la rende così unica: non rimane mai chiusa in un ambulatorio, ma si muove insieme alle persone, accompagnandole mentre affrontano i loro limiti e scoprono nuovi spazi dentro e fuori di sé.

Se il Luigi bimbo di tanti anni fa vedesse l’uomo che sei, cosa penserebbe?
Se il Luigi bambino potesse vedere l’uomo che sono oggi, credo resterebbe un po’ sorpreso, ma soprattutto felice. Scoprirebbe che quella passione ingenua e spontanea per la montagna, per lo sport e per l’endurance non è svanita con il tempo, ma si è trasformata in qualcosa di più grande: una parte essenziale del mio lavoro e del mio modo di stare al mondo. Penso che guarderebbe con stupore al percorso fatto, agli anni di studio, alle difficoltà affrontate e superate, a tutte le volte in cui ho scelto di continuare nonostante la strada sembrasse complicata. Forse rimarrebbe colpito dal fatto che, a un certo punto, ho davvero iniziato a credere in me stesso, a seguire con determinazione quelle intuizioni che da piccolo chiamava semplicemente “sogni”. E credo che, alla fine, sarebbe orgoglioso: non tanto per i traguardi raggiunti, quanto per il fatto che quella curiosità di bambino — quel bisogno di esplorare, capire, muovermi, aiutare gli altri — è diventata il filo che continua a guidarmi, in montagna e nella vita.

Che consiglio daresti a quel bimbo?
A quel bambino direi prima di tutto di continuare a curiosare, senza paura di fare domande e senza timore di perdersi. Gli direi di non avere fretta, perché alcune strade si rivelano solo quando si è pronti a percorrerle, e spesso ciò che sembra confuso da piccoli acquista un senso più avanti, quando si guarda indietro con occhi diversi. Gli consiglierei di fidarsi del proprio istinto, anche quando il cammino non è chiarissimo, perché ogni passo — anche quelli che sembrano piccoli o incerti — porta con sé qualcosa di prezioso. Soprattutto, gli direi di custodire quella passione che già allora lo spingeva a esplorare, a muoversi, a osservare il mondo con meraviglia: sarà proprio quella passione a guidarlo, a dargli forza nei momenti difficili e a rendergli possibile condividere un giorno ciò che avrà imparato. E infine gli direi che non c’è dono più grande del poter trasmettere agli altri ciò che si ama. Quella sarà la sua bussola, e lo accompagnerà lungo tutta la strada.

Se fossi il ragazzo che pensava ad avventura e montagne, e incontrassi il Dott. Vanoni, che cosa vedresti nel tuo futuro?
Se fossi quel ragazzo che sognava avventura e montagne, e incontrassi il Dott. Vanoni, vedrei davanti a me la dimostrazione che è possibile trasformare una passione in una vera professione, dando forma concreta a ciò che da piccoli appare solo come desiderio o curiosità. Vedrei come la montagna può essere vissuta non solo come una sfida personale, ma come un luogo di crescita, di scoperta e persino di cura, dove conoscere se stessi e gli altri diventa parte integrante dell’esperienza. Vedrei anche che il percorso non è sempre lineare: ci sono momenti di fatica, dubbi e ostacoli, ma capire che ogni difficoltà può diventare un insegnamento rende il cammino più ricco e gratificante. E soprattutto vedrei che raggiungere gli obiettivi — grandi o piccoli — porta con sé una soddisfazione più intensa, perché nasce dall’incontro tra passione, impegno e cura per gli altri. In quel futuro, quindi, il sogno di avventura non si perde, ma si trasforma in qualcosa di più ampio, capace di dare senso e valore a ogni passo.

E oggi cosa vedi nel tuo futuro? Hai già dei progetti per il 2026?
Oggi, guardando al futuro, vedo un orizzonte ricco di possibilità e sfide stimolanti. Proprio in questi giorni stanno arrivando proposte interessanti in diversi ambiti delle attività mediche svolte in contesti montani, e questo mi fa piacere, perché conferma che il lavoro fin qui svolto viene apprezzato e considerato utile. Naturalmente, accogliere queste opportunità richiederà un impegno maggiore, ma sento di avere la motivazione e la determinazione necessarie per affrontarlo al meglio e dare il massimo. Al contempo, il 2026 sarà anche un anno di consolidamento: consolidare esperienze, conoscenze e progetti già avviati, per rafforzare le basi su cui continuare a costruire. Ma ci saranno anche nuove aperture internazionali, occasioni di confronto e crescita che promettono di arricchire ulteriormente il percorso professionale e personale. In sostanza, vedo un anno in cui lavoro, passione e curiosità continueranno a intrecciarsi, offrendo stimoli concreti e la possibilità di trasformare nuove idee in esperienze significative.

Per i prossimi anni? Come vedi il tuo sistema?
Per i prossimi anni immagino un percorso in due fasi, che guardi sia al breve-medio termine sia al medio-lungo termine. Nel breve e medio periodo il mio obiettivo è rendere la medicina di montagna più capillare e accessibile, sviluppando ulteriori collaborazioni con professionisti, centri e realtà del settore. Vorrei che sempre più persone potessero beneficiare di un supporto medico qualificato, sia chi affronta le prime esperienze in montagna sia chi si prepara a sfide più impegnative. A medio-lungo termine, invece, il progetto diventa più ambizioso: vorrei costruire un sistema strutturato e integrato, che metta insieme formazione, consulenza medica e preparazione personalizzata. Un modello capace di accompagnare atleti e appassionati in ogni fase del loro percorso, dagli allenamenti quotidiani alle spedizioni in alta quota, dagli sport di endurance alle esperienze montane più complesse. L’idea è creare un punto di riferimento concreto, in cui competenza, esperienza e passione si combinano per permettere a chiunque voglia affrontare la montagna o migliorare la propria performance di farlo con sicurezza, consapevolezza e risultati concreti. In sostanza, sogno un sistema che non solo curi, ma accompagni, formi e ispiri chi sceglie di mettersi in gioco tra le montagne.

Ci inviti al tuo prossimo appuntamento?
Con piacere! Nei prossimi mesi ci saranno alcune iniziative dedicate alla medicina di montagna, pensate per unire aspetti clinici, preparazione fisica e riflessioni sull’esperienza personale in alta quota. Stiamo ancora definendo date e dettagli, ma sarà l’occasione per condividere conoscenze, esperienze e soprattutto la passione per la montagna. Per restare aggiornati e seguire tutte le novità, vi invito a rimanere sintonizzati sul mio sito web. Qui troverete informazioni sugli eventi, progetti in quota e altre opportunità di partecipazione. Sarà un momento di incontro, crescita e condivisione tra persone che amano la montagna e tutto ciò che essa può insegnare.

Christian Roccati
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