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23 Maggio 2025

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Il Pianoforte invisibile

Il Pianoforte invisibile. Compositrici-pianiste in concerto al Fortepiano.
di Carlo Cenini

Stefania Neonato - ph David Fontanari

Stefania Neonato – ph David Fontanari

Di cosa parliamo quando parliamo di pianoforte?

Nell’inverno del 1838, due viaggiatori sbarcarono a Mallorca portando con loro un piccolo pianoforte verticale. I due viaggiatori erano Fryderyk Chopin e George Sand, e il pianoforte era un modello detto “Pianino”, realizzato dalla ditta francese Pleyel, la prediletta da Chopin. Su quel “Pianino”, uno strumento dal suono delicatissimo e dalle infinite possibilità timbriche,  Chopin avrebbe composto i suoi 24 Preludi, tra i capolavori della musica di ogni tempo.

Negli anni precedenti, a Vienna e a Londra altri costruttori facevano la storia del pianoforte. Da lì venivano le più grandi novità. Era un’epoca di pionieri e di esaltanti sperimentazioni: tutte le strade erano aperte. I pianoforti che uscivano dai loro laboratori o dalle loro fabbriche erano l’uno differente dall’altro, ognuno con caratteristiche tecniche originali, ognuno il risultato di una ricerca in una regione sonora inesplorata e quindi con una propria personalità. È in quell’ambiente lussureggiante e magmatico che è fiorita quella che ancora oggi viene considerata la grande letteratura pianistica: Mozart, Beethoven, Schubert, Liszt, appunto Chopin, tutti loro chiamavano “pianoforte” – oggi spesso definito “fortepiano” – un oggetto che di anno in anno era in costante mutamento. Ascoltare questi strumenti oggi è come aprire una finestra su un giardino di mondi possibili.

Alcuni strumenti originali dell’epoca sono ancora visibili (e suonabili) in Trentino-Alto Adige, spesso passati di generazione in generazione nei casati ad esempio di Castel Thun o Castel Valer in Val di Non o conservati in qualche Museo, come nella collezione del Comune di Ala. Un prezioso esemplare di pianoforte storico (o fortepiano) di scuola viennese dell’ epoca di Mozart (anonimo, 1780 ca.) è visibile al Museo Etnografico Trentino di San Michele all’Adige.

La pianista Stefania Neonato ha appena concluso a Riva del Garda un importante ciclo di concerti che l’ha portata ad esibirsi in Italia, in Germania e negli USA presentando una profonda e colorata esplorazione del mondo delle compositrici tra Sette e Ottocento. Il programma prevedeva una sonata ricostruita da Michele Croese dai materiali del “Quaderno di Nannerl,” sorella di Mozart (1751-1829), una Sonata di Marianna von Auenbrugger (1759-1782), un Notturno e un Preludio di Maria Agata Szymanowska (1789-1831), una scelta dalle Soirées musicales di Clara Wieck-Schumann (1819-1896), quattro Lieder senza parole di Fanny Mendelssohn-Hensel (1805-1847).

L’onniscienza portatile di Internet e AI rende qui superfluo fornire informazioni circa il percorso artistico delle importanti musiciste sopra citate. I due secoli “l’un contro l’altro armati” durante i quali si dispiegarono le loro carriere, secoli così diversi tra loro anche dal punto di vista dell’estetica musicale, furono caratterizzati da unico comune denominatore: la donna che avesse voluto intraprendere una carriera musicale era una mosca bianca, e il destino che l’attendeva era quello della tenace rematrice perennemente controcorrente: ancora oggi, purtroppo, le pagine di queste compositrici vengono spesso relegate nell’ambigua e semi-anonima Wunderkammer dei bis, luogo di certo illuminato, ma di una luce diciamo un po’ circense; o, se accolte in programma, eccole presentate come curioso contorno accanto alle portate dei grandi classici, considerati più succulenti a prescindere. Emblematici i casi di Clara Wieck-Schumann e Fanny Mendelssohn-Hensel, le cui opere sono spesso capolavori di prima grandezza, ma che tuttavia raramente vengono eseguite senza essere accompagnate dai loro più famosi omonimi (il marito Robert per Clara, il fratello Felix per Fanny): quasi avessero bisogno di mentori e raccomandazioni per farsi conoscere dal grande pubblico. E invece l’ascolto dei Lieder di Fanny Mendelssohn può essere un’esperienza che non esito a definire sbalorditiva (scelgo lei solo perché Clara Schumann è forse l’unica compositrice dell’epoca a godere anche oggi di una certa notorietà): la tavolozza sonora di Fanny non aveva nulla da invidiare a quella di Felix, e non si può che rimpiangere, e rimpiangere davvero amaramente, che il suo talento sia stato deliberatamente soffocato dal padre, che le intimò di coltivare la passione per la musica come “mero ornamento” al proprio ruolo di donna; e al contempo essere grati per l’incontro con il pittore Hensel, che viceversa incoraggiò Fanny a tornare ad inseguire il proprio demone interiore.
Ma, come si diceva, ognuno potrà facilmente ritrovare (ed incoraggio vivamente a farlo) molte altre notizie su queste cinque musiciste.

L’esecuzione, dunque. Come detto, se è già difficile poter ascoltare questi brani in concerto, sentirli eseguiti su un pianoforte storico (o fortepiano) è ipso facto un’esperienza più unica che rara. Stefania Neonato, il cui talento è già noto al pubblico per le incisioni con case discografiche di livello internazionale come Dynamic e Brilliant, e che è attualmente impegnata nella registrazione dell’integrale delle Sonate per pianoforte e violino di L. v. Beethoven con Christine Busch per la tedesca SWR Music, dispone di tutte le molteplici qualità richieste ad una pianista per un programma cronologicamente così esteso: leggerezza, agilità, limpidità formale per i brani del ’700, e quella indefinibile mescolanza di slancio e introversione che rendono così delicata l’esecuzione di un’opera di epoca romantica.
Per l’occasione, Neonato ha suonato su una riproduzione di un pianoforte Conrad Graf del 1819. La principale differenza tra pianoforte antico e moderno è la presenza di un grosso telaio metallico nel secondo, che permette al pianoforte moderno di raggiungere sonorità più elevate di volume, nonché di avere una maggiore estensione di note. Per contro, nel corso del tempo il pianoforte ha perduto una serie di pedali/registri che davano vita a una più vasta gamma di possibilità timbriche, oggi ormai impossibili per un pianoforte moderno.

In altre parole, non bisogna farsi ingannare da un’ottica progressista e vedere il pianoforte antico come una tappa evolutiva ormai superata verso un “nuovo modello migliore”. Non si tratta di automobili, ma di oggetti che esistono e hanno ragione di essere in una sfera che è primariamente creativa, sfera nella quale lo sviluppo tecnologico ha un’importanza relativa e, in fin dei conti, limitata. Prendiamo arti come il cinema o l’architettura, tra le più palesemente intersecate con lo sviluppo tecnico: diremmo che un film di Chaplin è inferiore a uno di Spielberg per il fatto di non avere effetti speciali, sonoro, colore? O ancora, il Pantheon “sarebbe venuto meglio” se i Romani lo avessero realizzato in cemento armato?

L’atteggiamento di Neonato nell’uso del pianoforte storico non è cioè quello di un’archivista che ci fornisce oggi un’immagine del tempo che fu, imbalsamata e senza vita. Sotto le sue mani il Conrad Graf non sembra uno strumento limitato, un “quasi-pianoforte.” Prima ancora che dall’appassionato studio della partitura e della cultura del tempo, il calore della sua esecuzione viene dal considerare il pianoforte antico come uno strumento cui non manca nulla, anzi. E così, dalle pagine del classicismo settecentesco emerge più che mai la qualità altamente sperimentale di una musica che, a causa della maggiore levigatezza sonora degli strumenti contemporanei, siamo troppo abituati a percepire come marmorizzata in un equilibrio astratto, un po’ come il biancore delle statue greche: troppo spesso se ne mette in risalto la potenza formale, dimenticando così che allora quelle statue venivano anche colorate. Da questo punto di vista raccomando fortemente l’ascolto dell’incisione di Neonato delle Fantasie di Mozart e Haydn; tra le mani della pianista lo “strumento antico” ritrova la propria straordinaria, moderna attualità, tanto è vitale e convincente l’approccio.
Anche la tanto sottolineata potenza sonora, obiettivamente inferiore, del pianoforte storico è, e parlo stavolta del repertorio romantico, più che mai compensata da una stupefacente varietà di sfumature nelle regioni del piano e del pianissimo; così un Arabesque di Robert Schumann (tra i bis) è sembrato emergere dal nulla, e dipanarsi con l’impalpabilità di una voluta di fumo che suggerisce infinite forme senza cristallizzarsi in nessuna. Su un pianoforte contemporaneo la famosa Innere Stimme di Robert Schumann, la melodia che sorge senza essere suonata, come effetto di un intreccio armonico, è più un paradosso per conoscitori, arduo da cogliere per un profano: sul pianoforte antico è un fatto puro e semplice, che qualsiasi ascoltatore può constatare da sé senza bisogno che qualcuno glielo indichi.

Il nitore muscolare del pianoforte moderno – concepito per grandi sale e teatri – non può arrivare a questi vertici di variegata delicatezza e, approssimandosi al limite dell’udibile, trova la propria nemesi. Su un pianoforte moderno, i grandi pianisti sanno di dover mantenere, anche nel più flebile pianissimo, una segreta intensità. I pianissimi di Radu Lupu si sentono fino agli ultimi posti di un grande ambiente. Su un pianoforte antico, in un’acustica appropriata, un grande pianista può procedere oltre, fino a svanire in zone più immateriali, nelle quali il suono sembra quasi confondersi con il pensiero.

Carlo Cenini

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