MENU

1 Febbraio 2018

Alpinismo e Spedizioni · Vertical

Elisabeth Revol racconta come la sua avventura sul Nanga Parbat è diventata un incubo

Elisabeth Revol ricoverata in Francia per la cura dei congelamenti. Foto arch. AFP

L’alpinista Elisabeth Revol in un’intervista esclusiva rilasciata a Philippe Desmazes di AFP nell’ospedale di Sallanches, nelle Alpi francesi, ieri 31 gennaio 2018

Dalla sua stanza di ospedale in Francia, ieri l’alpinista  Elisabeth Revol  ha parlato per la prima volta con l’agenzia AFP.com del Nanga Parbat (Pakistan), la nona montagna più alta del pianeta, affrontata insieme al suo compagno di cordata Tomasz Mackiewicz, e della drammatica discesa dalla vetta.

A Sallanches (Alta Savoia, Alpi francesi), dove è in cura per gravi congelamenti ad entrambe le mani e al piede sinistro, questa piccola signora –  1m56 per 43 kg al ritorno dalla spedizione – conferma la salita in vetta al Nanga Parbat (8.126 m). Si tratta della prima salita di questo 8000 in inverno per una donna, raggiunto senza ossigeno  supplementare e senza l’aiuto di sherpa.

“Era il mio quarto tentativo invernale, il settimo per Tomek e il terzo insieme”, spiega la Revol.

Partita dalla Francia il 15 dicembre, alcune settimane  dopo, il 25 gennaio, era a più di 7.000 m di altitudine con Mackiewicz, procedendo verso il loro obiettivo. “Stavamo bene in ​​quel momento”. Alle 17:15, un po’ tardi, sono quasi al vertice della piramide; brancolano, ma il desiderio di arrivare in cima è forte e 45 minuti dopo, sono in vetta. Purtroppo la felicità per aver raggiunto il vertice è di breve durata.

Elisabeth Revol. Foto: arch. AFP.com

“Tomek mi ha detto di  non vedere più nulla. Non aveva usato la maschera perché durante il giorno accusava un leggero velo e al calar della sera, aveva un’ infiammazione agli occhi. Non abbiamo impiegato un secondo in cima, siamo scesi immediatamente. “

Tomek si aggrappa ad una delle sue spalle ed entrambi iniziano una lunghissima discesa, al buio della notte.

“Ad un certo punto, non riusciva più a respirare, ha rimosso la protezione che aveva sulla bocca e ha cominciato a congelare. Il suo naso è diventato bianco e poi, dopo le mani, i piedi”. Allertano i soccorritori. Si riparano dal vento, in un crepaccio. Tomek non ha più la forza di tornare al campo. All’alba, la situazione è drammatica. Oltre ai congelamenti, il polacco manifestava sangue dal naso, chiari segni di edema cerebrale, l’ultimo stadio del mal di montagna acuto, fatale se  non si viene curati prima possibile.

“Ho allertato tutti, perché Tomek non poteva scendere da solo”, dice Eli.

I messaggi si perdono, probabilmente, nella vastità dell’Himalaya, causando incomprensioni. “Mi è stato detto .. se scendi a 6.000 metri ti possiamo recuperare e possiamo recuperare Tomek a 7.200 m (con l’elicottero, ndr)… E’ successo questo… Non è stata una decisione che ho preso io, mi è stata imposta”, spiega la Revol.

A Tomek, dice semplicemente, prima di scendere: “ascolta, arrivano gli elicotteri nel tardo pomeriggio, sono obbligata a scendere, verranno a riprenderti”.

La Revol manda le coordinate GPS della sua posizione, protegge il suo amico nel miglior modo possibile e, persuasa del buon esito dei soccorsi, lascia Tomek “senza prendere nulla, neanche la tenda, sacco a pelo, niente”. Ma gli elicotteri non sono arrivati.

Quindi trascorre una seconda notte all’aperto, “senza equipaggiamento”, come Tomek nel suo crepaccio. L’altitudine le provoca un’allucinazione. Immagina le portino del “tè caldo” e che “per ringraziare, sia necessario dare uno scarpone”. Così passa 5 ore col piede scoperto.

Elisabeth Revol, gennaio 2018. Foto: arch. AFP.com

Arriva il giorno e lei spera sempre. A 6.800 m, Elisabeth decide di fermarsi, di “preservare le forze e immagazzinare calore”. Sente un elicottero sul ghiacciaio “ma era già troppo tardi, il vento si stava alzando”.

Quando apprende che l’elicottero sarà in grado di ritornare solo il giorno dopo e che dovrà trascorrere una terza notte all’aperto, sceglie di scendere. “Era una questione di sopravvivenza”, dice, e segnala che non aveva ricevuto il messaggio che le annunciava che due alpinisti polacchi le stavano andando incontro.

Elisabeth descrive una discesa prudente, “cauta”, nonostante “i guanti bagnati”, il “freddo pungente” che le congela le dita e il “dolore” quando si tiene alle corde della via. Verso le 3.30 del mattino, raggiunge il campo 2 a 6.300m. “Ho visto due frontalini durante la notte, ho iniziato a urlare –  racconta l’alpinista commossa – E’ stata una grande emozione”. Tanto più che i suoi due soccorritori sono Adam Bielecki, che lei conosce – avevano un progetto per scalare l’Everest – e Denis Urubko, la leggenda degli 8.000.

Il resto è storia: la sua evacuazione a Islamabad domenica. il suo ritorno in Francia martedì sera.

Le notizie pubblicate sull’operazione di soccorso al Nanga Parbat

Fonte