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30 Aprile 2016

Alpinismo e Spedizioni · Vertical · Trento Film Festival 2016

FILIPPO FACCI INTERVISTA SIMONE MORO

614px511px-simone-moro-fonte-wwwsimonemorocomUSCITA OGGI SUL QUOTIDIANO LIBERO, L’INTERVISTA DI FILIPPO FACCI A SIMONE MORO: “SENZA LA LUNGER SAREMMO MORTI SUL NANGA PARBAT”.

Prima bisogna ricordare che Simone Moro è un alpinista di quasi 49 anni e che è l’unico ad aver raggiunto quattro ottomila in inverno, cioè il Shisha Pangma (8.027 m) e il Makalu (8.463 m) e il Gasher-brum II (8.035 m) e finalmente, il 26 febbraio scorso, il mitico Nanga Parbat di 8.125 metri, in Pakistan, una delle montagne più difficili del mondo. L’ha scalato assieme allo spagnolo Alex Txicon, al pakistano Ali Sadpara e, anche se si è fermata a 60 metri dalla cima, alla sua compagna di cordata Tamara Lunger, altoatesina trentenne. Libero incontrò Simone Moro prima che partisse, nel tardo autunno. Ora rieccoci.

Come possiamo spiegarlo, il Nanga Parbat?
Come una montagna gigantesca: il Monte Bianco ci starebbe dentro quaranta volte, l’Everest un paio, ma soprattutto i suoi campi base sono distantissimi dalla vetta. Il campo base avanzato dell’Everest, per dire, è a 6200 metri e ci puoi arrivare in scarpe da ginnastica, ma per raggiungere la stessa quota, sul Nanga, devi aver già scalato 2200 metri di dislivello. Ancora: Il giorno della vetta c’erano -34 gradi ma con vento a 45 all’ora, che in termini di wind chill, cioè di temperatura percepita, fanno – 58.

Tu dapprima hai tentato di salire il Nanga dalla via Messner – negli anni passati e anche quest’anno – ma poi hai ripiegato sulla via Khinshofer. In sintesi hai perseverato nell’errore.
Non è stato un errore in sè. Ho tentato la via Messner in momenti in cui mancavano le condizioni per salirla. Serve anche fortuna.

Se quest’anno avessi fallito, cioè, l’anno prossimo magari avresti ritentato ancora da lì?
Sarei andato a vedere, sì. La via Messner sarebbe la più facile, non devi mettere neanche un metro di corde fisse. Ma quest’anno c’era una barriera di seracchi troppo fragile e strapiombante. Solo una volta sono salito fin lì, ma da solo, dovevo recuperare del materiale. Tornai di notte e avevo uno zaino gigantesco: fu lì che Alex Txicon ci rinnovò l’invito a unirci alla sua squadra con Alì Sadpara e a Daniele Nardi. Lo conosco da 13 anni, continuava a invitarmi anche perché le nostre tende erano vicine. Con lui c’era un certo rapporto: all’inizio della spedizione, per dire, gli avevo dato 480 metri di corda perché non ne aveva portata abbastanza. Gliel’avevo regalata.

Simone Moro e Ali Sadpara sulla vetta del Nanga Parbat (8125 m), prima invernale

Simone Moro e Ali Sadpara sulla vetta del Nanga Parbat (8125 m), prima invernale

Allora hai accettato l’invito. E ti sei trovato buona parte della via con le corde già fissate. E allora, per compensare, hai offerto dei soldi. A chi?
Beh, a lui, a Txicon, il capo spedizione: aveva comprato le corde fisse e, con Ali Sadpara, ne aveva fissate il 95 per cento fino a 6700 metri. L’altro, Daniele Nardi, ne avrà fissate il 5 per cento.

Tu come fai a saperlo?
Lo vedevo, ero al campo base. L’ha raccontato anche Txicon, aggiungendo che Nardi era troppo impegnato con Facebook.

Hai utilizzato il loro permesso di salita.
Quello no, avevo il mio, in Pakistan se resti sullo stesso versante basta un permesso solo. Alex diceva che gli serviva la mia esperienza, e in effetti ero l’unico che aveva conquistato degli ottomila d’inverno.

Però accadde qualcosa, perché Daniele Nardi a un certo punto tornò a casa. Dopodiché voi quattro – tu, Tamara, Txicon e Sadpara – avete formato una squadra eccezionale. E siete saliti.
Sì, ma non voglio parlare di Nardi, ci ho spartito poco, non m’interessa polemizzare.

Va bene, ma non è che uno se ne va così. Tamara Lunger, una genuina, ha detto che senza Nardi tutto andò alla perfezione, che Nardi non c’era con la testa, che voleva distruggere la squadra, che nel giro di poche ore sono successe un mucchio di cose strane.
E’ così, e basti questo.

Non basta.
Le due squadre si unirono e, per qualche ora, tutto sembrava andare per il meglio, anche Nardi sembrava contento. Poi, a margine di una cena in cui ci ritrovammo per fare il punto, Nardi tenne delle condotte che lasciarono tutti basiti: prima Tamara, poi io, poi Txicon e ancora la sua fidanzata, Igone. Il giorno dopo, con calma e decisione, dissi a Nardi che non volevo scalare con lui, perché non mi fidavo, e tornammo a dividerci. A quel punto chiesi ancora a Txicon quanto voleva per farci usare le corde: posto che loro, ovviamente, le avrebbero potute usare prima di noi. Txicon rifiutò ancora. Poi se la sono sbrigata tra loro.

Ossia?
Per quello che era successo, e per altre vicende precedenti che non c’entravano con noi, Txicon e Sadpara decisero di estromettere Nardi: che se ne salisse in solitaria, se voleva. I due, poi, ci riproposero di fare squadra.

Che altri problemi aveva avuto, Nardi, con Txicon e Sadpara?
Niente di cui io sia stato testimone.

Txicon si è detto pentito di avergli dato spazio. Poi c’è una polemica su una caduta che Nardi si sarebbe inventato perché non ce la faceva a salire, tanto che poi Sadpara gli disse «tu quest’anno non sei buono».
Non ho niente da dire. Ci limitammo ad accettare la proposta. Nardi intanto aveva deciso di andarsene, ma con una richiesta: sarebbe partito l’8 febbraio – primo giorno dopo il quale erano previste 72 ore di bel tempo – ma noi, secondo lui, quel giorno dovevamo rinunciare a salire: sennò lui avrebbe fatto la figura di quello che non ce la fa e scappa.

E voi?
Da ottanta giorni aspettavamo una finestra di bel tempo: dovevamo rinunciare per i problemi di Nardi?

Che alla fine se ne andò.
Ma cercò di seminar zizzania. Non diede un soldo, neanche la mancia ai cuochi, richiese indietro materiale, una tenda, addirittura i vestiti ad Alì Sadpara: dovetti dargli io una tuta d’alta quota. Infatti, se ci badi, nella foto di vetta, siamo vestiti uguali.

Nardi ha raccontato che in squadra, lui compreso, sareste stati cinque: ma che la tenda, al campo due, poteva ospitarne quattro. Dopodiché tu l’hai sfiduciato.
E’ una balla colossale. Avevamo già deciso che avremmo scavato nel ghiaccio e fatto posto per una tendina da due, attaccata a quella da quattro.

Simone Moro e Tamara Lunger, Nanga Parbat

Simone Moro e Tamara Lunger, Nanga Parbat

Poi siete saliti come fulmini. Tu e Tamara non eravate acclimatati.
Esatto, e credo sia la prima volta che riesca una cosa del genere. Io e lei erevamo stati solo una notte a 6200 e poi eravamo tornati giù.

Il campo 4, l’ultimo, era a 7200: un po’ basso.
Perché non eravamo acclimatati, appunto.

Così, però, avete dovuto fare un ultimo balzo di ben mille metri. Per 13 ore. E siete pure partiti tardi, dopo 5 di mattina.
Sadpara e Nardi, l’anno prima, erano partiti presto, col buio, e avevano sbagliato strada. Quest’anno ho consigliato di andare col chiaro anche perché, senza sole, ci saremmo congelati. Mi hanno ascoltato. La mia esperienza è servita a qualcosa.

La rinuncia di Tamara, a pochi metri dalla cima, l’avete un po’ infiorettata. Torniamo ad ambientarla a ottomila metri.
Tamara era già stata male e aveva vomitato, sempre per l’acclimatazione. Quando mancavano meno di cento metri, mi volto e glielo dico. C’era molto vento. Ali e Sadpara erano più avanti, io restavo con lei anche perché, come detto, eravamo meno in forma.

E te ne accorgevi?
Ero alla canna del gas, altroché. Le dico: solo cento metri. Ma lei risponde: se arrivo in cima – e già lo metteva in dubbio – poi dovete aiutarmi a scendere. E per come stavo io, era l’ultima cosa che avrei voluto sentirmi dire, perché ero proprio alla fine, e gli altri pure. Mancava poco al tramonto e non eravamo ancora in cima. Allora lei comincia a rimanere indietro, comincia a non vedermi più. Ma io vedo la vetta. Mi fermo a 15 metri dalla cima, respiro. Mi fermo a 5 metri, respiro. In vetta vedo che lei non c’è. Allora aspetto. Gli altri volevano scendere subito, stavano gelando, io volevo darle il tempo almeno di apparire. Non volevano neppure fare delle foto, sono l’unico ad averle fatte. A un certo punto cominciamo a scendere, piano piano.

Lei era tornata indietro. Ed era pure caduta.
Durate il ritorno, poco prima del campo 4, nel saltare un crepaccio, è scivolata per almeno duecento metri. Si è fermata per miracolo grazie a un tratto di neve fresca. Non ha neppure visto niente, aveva il berretto sugli occhi.

Uno potrebbe chiedersi: che c’è di eroico in tutto questo?
A parte che è stata la prima donna a superare gli ottomila in una prima invernale, Tamara Lunger ha fatto 4000 di dislivello e non ha raggiunto la cima non perchè non ne avesse le forze, ma perché ha capito che se fosse arrivata in cima forse non sarebbe tornata a casa. Meglio: qualcuno avrebbe dovuto aiutarla col rischio serio di congelarsi e soprattutto attardarsi. Già da soli siamo scesi molto lentamente, col buio che incombeva.

Con lei sareste stati ancora più lenti.
Per forza. Qualcuno ci avrebbe lasciato le mani o i piedi, e forse, con l’imbrunire, non avremmo neanche più ritrovato la tenda.

La traccia dell’andata non c’era più?
Non c’era mai stata: era tutto ghiaccio vivo, duro. Ormai era buio pesto, ma a un certo punto qualcuno ci ha fatto da faro: era lei, Tamara. Si è accesa una luce e ci ha guidati sani e salvi sino alla tenda. Ecco perché è stata una squadra fantastica, in cui nessuno, senza l’altro, avrebbe raggiunto la cima potendolo poi anche raccontare. Ecco perché la storia di Tamara è meravigliosa, e la sua vetta mancata fa ormai parte della storia dell’alpinismo.

Fonte: liberoquotidiano.it