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5 Maggio 2022

Gianni Calcagno: “Salendo dal Mare”

Chi era Gianni Calcagno?
…è davvero possibile rispondere a questa domanda?

Sabato 7 maggio ci sarà l’inaugurazione della prima edizione della mostra Salendo dal Mare, che si svolgerà a Finale Ligure alla fortezza di Castelfranco alle ore 18. Forse questo evento potrà tentare la sfida in questo arduo compito.

Si tratta della sintesi della vita di Gianni Calcagno, alpinista di fama italiana e internazionale scomparso mentre scalava il monte Denali (6190 m) in Alaska.

Le oltre 250 fotografie, scelte da un archivio di 17.000, sono innanzitutto la documentazione di un’esistenza dedicata alla montagna. Immagini di cime che perforano il cielo, di scalate, di pareti vertiginose, di ghiaccio e neve. Ma non solo.

C’è una sintesi del mondo che vive: genti, paesi, opere d’arte, civiltà, bambini, uomini e donne. Queste immagini raccontano la visione del Pianeta dal punto di vista di un grande alpinista che era anche esploratore, studioso, scrittore e poeta.

La mostra sarà visitabile 𝐟𝐢𝐧𝐨 𝐚𝐥 𝟒 𝐠𝐢𝐮𝐠𝐧𝐨 dal giovedì alla domenica con i seguenti orari:
giovedì – sabato: 15-20 e domenica: 10-13 e 15-20

Per l’occasione Camilla Calcagno mi ha fatto leggere un articolo composto da Marco Schenone con una collaborazione a quattro mani, non ancora pubblicato. Un vero gioiello di sentimento, ricordi e Sogni, che qui riporto con il suo consenso e suggerimento.

“Gianni Calcagno 30 anni dopo (di Marco Schenone)
Nel maggio del 1992 Gianni Calcagno e il suo compagno Roberto Piombo stavano risalendo con il loro consueto “stile alpino” lo Sperone Cassin al Monte Denali.
A 30 anni da quell’ultima salita chi ricorda ancora la figura, davvero fondamentale nella storia dell’alpinismo, di quel genovese alto, magro e barbuto come un asceta che, con le sue imprese, ha contribuito alla nascita di tutte le discipline così diverse in cui si articola oggi la pratica della scalata? Dall’alta montagna alla falesia, Calcagno ha anticipato e ha contribuito ad aprire la strada ai moderni climbers e ai “corridori” d’alta quota.
E’ doveroso in questo anniversario rievocare alcuni aspetti di una personalità che anche le nuove leve dell’alpinismo, eccezionalmente preparate e forti, devono poter apprezzare e direi rispettare.
La prima grande pagina dell’alpinismo di Calcagno fu sicuramente scritta sulla parete Nord-Est del Pizzo Badile con la sua prima ascensione invernale della via di Cassin in condizioni climatiche estreme; la salita lo porta alla ribalta delle cronache, per i tanti giorni di permanenza in parete tra bufere e valanghe, le forti difficoltà superate, con un’attrezzatura che oggi farebbe sorridere o inorridire, il successo finale dai contorni quasi epici.
Dagli anni Settanta Gianni Calcagno è protagonista di una serie di spedizioni nell’Hindu Kush pakistano che hanno del memorabile, ma che mai sono state valorizzate a sufficienza dalla stampa specializzata o dai media, forse anche per la concomitanza con altre ascensioni magari meno eccezionali, opera però di alpinisti il cui nome all’epoca – e forse ancora oggi – faceva più clamore.
Gli sono compagni personaggi di enorme esperienza e abilità quali Machetto, Enzio e Vidoni con cui condivide numerose prime di livello assoluto.

Ricorderei la traversata dei Tirich, ma soprattutto la doppia salita nel giro di un paio di settimane del Tirich Mir, 7800 metri, vetta massima del gruppo. La prima che Gianni definì “solo per allenamento” lungo la via cecoslovacca, la seconda, dopo un eccezionale periodo di maltempo e la relativa discesa sino a valle, per un nuovo itinerario di grande difficoltà tecnica su misto e roccia, la via “degli Italiani”, il tutto in puro stile alpino, cioè abbandonando la consuetudine delle grandi spedizioni classiche, della posa sistematica di campi e corde fisse, ma basandosi unicamente sulla tenacia e la velocità che solo un piccolo commando di due o tre persone poteva avere.

Proprio questo concetto di stile leggero, alpino e di “commando”, cordata composta da due o tre elementi che devono confidare solo nelle proprie capacità, applicati all’attività in alta quota, sono una delle novità che caratterizzano l’alpinismo di Calcagno e che, dai Tirich in poi, Gianni cercherà di mettere in pratica su tutti i terreni e in ogni parte del mondo.
Gli anni Ottanta si rivelano quelli della definitiva consacrazione del “marinaio-alpinista” come super atleta d’alta quota: dopo il Broad Peak salito nel 1984 addirittura due volte in pochi giorni, Calcagno entrò nell’equipe di “Quota 8000“, gruppo di scalatori d’eccellenza quali Vidoni e Chamoux, organizzato da Agostino Da Polenza con l’intento di salire tutte le maggiori vette della terra in 5 anni. Gasherbrum I e Gasherbrum II sono scalati nel 1985; il K2 in soli tre giorni dal campo base nel 1986, anno in cui 13 alpinisti tra i quali il grandissimo Renato Casarotto periscono sulla montagna. E poi il Nanga Parbat nel 1987. Calcoli alla mano sono cinque tra i più difficili ottomila in neanche quattro anni!
A quel punto nasce il dilemma: diventare un professionista della montagna, con tutti gli impegni legati agli sponsor, con separazioni ancora più prolungate da Genova e dalla famiglia, oppure rimanere scalatore professionale si, ma dilettante?
Il connotato troppo commerciale e il lungo impegno temporale richiesto lo fanno desistere.
Rinuncia alla corsa agli Ottomila che intanto sta infiammando le platee con la gara per il primato di tutte le vette raggiunte.
Calcagno torna a dedicarsi a un alpinismo più esplorativo, avventuroso e certamente più tecnico e innovativo, esportando in quota quello che adesso si chiama dry-tooling, fin sulle Ande peruviane, con la formidabile “prima” allo sperone ovest del Taulljraju.
Già prima, in compagnia di Alessandro Gogna, si era spinto ai limiti estremi dell’arrampicata su ghiaccio durante il soggiorno invernale in Scozia, dove tra i primi, insieme a Grassi e altri, aveva potuto emulare i “ghiacciatori” locali, salendo i sottili nastri ghiacciati verticali e quasi improteggibili che striano il Ben Nevis e i Caingorns, grazie alla neonata tecnica della piolet-traction.
Mentre in Italia si cominciava timidamente a considerare la possibilità di salire le cascate più ricche di ghiaccio e magari meno inclinate, procedendo a suon di chiodi, in Scozia, Gogna e Calcagno affrontarono stalattiti che pendevano nel vuoto e fili di neve compressa dove solo con la loro tecnica e sangue freddo eccezionali trovarono il modo di “divertirsi”.
Ecco che nella seconda metà degli anni Ottanta tutte queste esperienze furono trasferite da Gianni alla testa di un manipolo di amici, sulle montagne di casa nostra: Marittime, Cozie, ancora Apuane. Furono disegnate linee davvero notevoli per l’epoca e per i materiali usati: oggi viene chiamato M1, M7, M… per noi era genericamente solo misto ripido e improteggibile.
Autori di questa piccola rivoluzione sono il fortissimo Valter Savio, Marcello Giovale, Giustino Crescimbeni, il sottoscritto e soprattutto l’emergente Roberto Piombo, grande atleta che avrebbe fatto coppia fissa con Gianni sino alla fine.
Roberto di circa vent’anni più giovane di Calcagno, da allievo prodigio, diviene in breve il suo compagno ideale, alternandosi a Gianni nell’apertura di nuovi itinerari eccezionali dalle Ande alle più modeste, almeno in altitudine, Apuane; ricorderei in particolare la nuova via sul Cristobal Colon in Colombia, la scalata estrema del Cayesh in Perù, un’impresa passata quasi inosservata, ma che si colloca tra le massime dell’alpinismo andino contemporaneo per difficoltà tecniche e velocità di realizzazione, celebrata da molte riviste internazionali tranne che da quelle italiane e una raffica di prime salite sulla Cordillera Real in Bolivia; il tutto solo in un triennio di attività.

Per “allenarsi”, poi, i due sono protagonisti di alcune scalate di misto estremo sulla roccia e il paleo apuano, talmente impegnative psicologicamente, soprattutto per la grande difficoltà di assicurazione della cordata, che richiederanno ai pochissimi ripetitori persino l’uso dei chiodi a pressione per proteggersi.
In qualche occasione eravamo insieme e mi restano ricordi davvero intensi di quelle scalate fatte in giornata, partendo alle due di notte da Genova per rientrarvi magari alla stessa ora della notte seguente, dopo aver macinato migliaia di metri di dislivello e superato in parete passaggi davvero duri.
Vorrei terminare sfatando la diceria di un Calcagno burbero e insensibile verso i compagni di cordata: durante tutto il tempo che ho condiviso con lui e Roberto tra i monti, non abbiamo fatto altro che scherzare, prenderci in giro, ridere persino della nostra stessa mania di “forzati della montagna”: ”A disperati” era uno dei suoi richiami preferiti, quando la stanchezza sembrava affiorare maggiormente; una forma di cameratismo, basata sull’autoironia, ma anche sulla solidarietà e lo sforzo comune per raggiungere l’obiettivo, una vetta, qualunque essa fosse.
Nell’ultimo periodo, quello della piena maturità, ciò che guidava Gianni era l’amore puro per l’avventura e la natura, da condividere in compagnia di un gruppetto di amici con cui assaporare la magia dei monti, senza badare più di tanto all’impresa sensazionale o alla scalata estrema e di certo sarebbe stato sempre più così nel tempo, se la spaventosa bufera sul Denali, allora chiamato McKinley, non fosse arrivata tanto presto.
A trent’anni da quella solitaria battaglia finale restano i numerosi scritti e le stupende immagini di Calcagno, di cui una parte sono offerte nella mostra fotografica “Salendo dal mare” organizzata dalla figlia Camilla, preziosa testimonianza di una notevole sensibilità, di una viva curiosità per popoli e luoghi incontrati grazie all’alpinismo, della ricerca di pace e bellezza di uno spirito sensibile e profondo, pur nella tensione al continuo perfezionamento personale e che, come pochi altri, chiudendo l’epoca dell’alpinismo eroico ha spalancato le porte di quello moderno”.

Quando lessi la prima volta il libro “Stile Alpino” di Calcagno, non potei che immedesimarmi e sognare e provare a vivere un po’ quelle fantasie nella più reale e magnifica natura. Dopo questo articolo, e sapendo della mostra, non posso che tornare e godermi quegli scatti, ricordando uno dei grandi maestri.

Christian Roccati
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