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9 Luglio 2021

Alpinismo e Spedizioni · Vertical · Cultura · Alpi Orientali · Aree Montane · Italia · Veneto

I taccuini di Michael: un romantico che scala le montagne in punta di penna

Michael Tramontin: cena spartana alla Casera Brica. Autoscatto

Michael Tramontin, un alpinista fuori dagli schemi. Contributo di Vittorino Mason

Un buon paio di scarponi, uno zaino e un taccuino per annotare ciò che si vede si vive, sono gli strumenti indispensabili per un viaggiatore. I moleskine, quei piccoli taccuini neri, sono forse i quaderni da viaggio più usati. Bruce Catwin, il famoso viaggiatore e scrittore inglese, ne era un grande fruitore.

Ma ci sono altri vagabondi dell’orizzontale e del verticale che hanno seguito il suo esempio per lasciare in un taccuino le proprie impressioni e riflessioni. Uno di questi è Michael Tramontin, un alpinista bellunese fuori dagli schemi. Lui vive la montagna non per gradi di difficoltà, ma per gradi di emozioni.

Andare in montagna è entrare nell’intimità di un ambiente altro, è assaporarlo in tutta la sua interezza e per riuscirci si sta, anche per giorni, si bivacca, a volte all’addiaccio, sotto la sporgenza di una parete o in un anfratto, altre in un bivacco. Lì, nel silenzio di una notte che non sembra mai finire, nel profondo di una solitudine che ti è compagna, la montagna racconta e la vita si rivela. Michael non fa altro che ascoltarla e ascoltarsi per poi ricordare l’esperienza con bella calligrafia in un quaderno di vetta, in un libro da bivacco, nei taccuini da viaggio.

Uno dei taccuini di Michael Tramontin. Foto di Vittorino Mason

Ma chi è Michael?

Io l’ho conosciuto nell’autunno del 2019 al bivacco Musatti, ma già da qualche anno i compagni di montagna continuavano a parlarmi di lui dicendo che era un personaggio affascinante e che ne invidiavano le doti alpinistiche e lo stile con il quale scalava le montagne. Queste premesse mi incuriosivano molto e dentro di me c’era la voglia, non tanto segreta, di conoscerlo direttamente. E capitò quella domenica di novembre.

Gabriele ed io eravamo prossimi al bivacco Musatti, cinquanta metri più sotto. Davanti al bivacco c’erano tre figure, tra le quali risaltava quella di uno spilungone. «Ma quello è Michael, Michael…» gridò lui come avesse visto dio. Non stava più nella pelle dalla gioia.

Michael e altri due suoi amici avevano trascorso la notte lì rallegrandosi con vino, grappa, boccate di fumo, ma soprattutto con tante storie. Erano diretti alla soprastante Cima Schiavina, montagna poco conosciuta delle Marmarole. Volevano ripetere la “Via del Basso”, una via non difficile aperta proprio da un uno di loro, Luca. Coincidenza voleva anche noi fossimo diretti alla stessa cima, ma lungo la cresta Nord, una vecchia via aperta da L. Darmstadter, P. Orsolina e J. Stabeler il 13 giugno del 1891.

Michael Tramontin sulla Via del Basso di Cima Schiavina. Foto di Vittorino Mason

«Allora ci rincontreremo in cima!» disse il mio compagno che per festeggiare l’incontro speciale volle pure fare una foto di gruppo. Poi ci dividemmo: loro a destra, noi a sinistra. Lungo la via di salita, dalla cresta ebbi modo di vedere più volte i tre che s’inerpicarono per la parete ovest con Michael in testa; la sua silhouette slanciata, snella ed elegante che si stagliava nel vuoto era inconfondibile.

Arrivammo in vetta quasi contemporaneamente e lì festeggiammo godendoci il panorama delle Marmarole e di altri gruppi dolomitici. Michael stappò una bottiglia di birra e ne offrì a tutti, poi si accese la pipa e l’aroma di un buon tabacco si diffuse piacevolmente nell’aria. Mentre ognuno era perso con lo sguardo in orizzonti incontemplabili, Micheal tirò fuori da sotto l’ometto di vetta un quaderno e scrisse una pagina intera di parole ed emozioni.

Cima Schiavina (Gruppo delle Marmarole). Dopo la salita Michael Tramontin scrive le sue sensazioni. Foto di Vittorino Mason

Scendemmo tutti assieme per la “Via del Basso”, che si dimostrò di non facile orientamento. Qui, vicino a lui, ebbi modo di osservare la facilità con la quale Michael disarrampicava, la sua agilità, la sua sicurezza e le sue movenze feline. Nel pomeriggio inoltrato, ad un certo punto della discesa, la sua figura silhouette si stagliò in controluce verso l’ovest: si era fermato ad attenderci e osservava l’orizzonte perso nei suoi pensieri e con la pipa in bocca. Quando lo vidi ebbi subito un rimando ai grandi alpinisti del passato come Bruno Detasisis e Carlo Mauri.

Mi accorgo però di non aver ancora risposto alla domanda di cui sopra. Longilineo, capelli lunghi e neri tenuti a freno da una fascia, la barba a sottolinearne il volto fine, dallo sguardo buono e aperto; Michael è un alpinista di 34 anni che vive a Ponte nelle Alpi dove lavora come meccanico presso una ditta di trasporti urbani (N.D.R. nel frattempo Michael ha cambiato occupazione e ora lavora in un laboratorio artigianale di marmellate biologiche, ed è contento), ma farebbe carte false per vivere solo e di montagna.

Istruttore di alpinismo, ha al suo attivo molte ripetizioni di vie classiche poco ripetute e soprattutto una notevole attività di esplorazione, spesso in solitaria e in invernale. Il Trittico invernale alle Tre Cime di Lavaredo ne è quasi un emblema. Ma quello che ne fa un alpinista d’antan, e per questo interessante, è il suo vivere la montagna come fosse pure lui roccia, legno, sale, terra, muschio, acqua, nuvola, animale, erba, vino…

Dalla Cima Schiavina Michael Tramontin indica ai compagni la via di discesa. Foto di Vittorino Mason

L’intervista

Che tipo di alpinismo è il tuo?

Un alpinismo all’antica. Mi interessano le vie storiche, dimenticate, quelle lunghe e articolate con avvicinamenti lunghi, quelle che trovi nelle descrizioni del Berti, con gradi generici, quelle dove ti senti alpinista veramente, dove sei tu e basta e devi arrangiarti a fare tutto: soste, ricerca dell’itinerario migliore e il rientro. Il mio alpinismo è anche quello di rimanere due giorni per i monti, specie in inverno, stare da solo nei bivacchi perché così sento la montagna.

A volte però mi piace stare anche con le persone per cercare di trasmettere tutto quello che sento. Credo il mio si possa definire un alpinismo di ricerca, un alpinismo classico.

Truna nei pressi di Forcella Verde (Gruppo Cristallo-Piz Popèna). Foto arch. Michael Tramontin

Quali sono i gruppi montuosi che preferisci?

Sono un grande frequentatore delle Dolomiti Friulane, in particolare della Val Cimoliana, dove ho salito quasi tutte le cime dai vari versanti, ma sono un assiduo frequentatore anche del Gruppo delle Marmarole, del Popèra, Cadini di Misurina, del Cristallo, del Gruppo delle Terze e dei Brentoni. Quello che per me è fondamentale è che siano montagne silenziose e poco frequentate.

Ci sono luoghi, montagne, che in certi momenti dell’anno mi chiamano. Ad esempio il Sassolungo di Cibiana che salgo spesso in inverno, ma il Campanile di Val Montanaia è un richiamo irresistibile. L’ho salito molte volte, anche in solitaria. Per me il Campanile è come un amico e quando vado a trovarlo è sempre all’alba, prima che arrivi la moltitudine di cordate. Questa cima è stata anche la mia prima via in solitaria e in libera.

Che piova, nevichi o ci sia aria da burrasca, tu quando non lavori sei sempre in montagna. Come la vivi?

Fin da quando ero bambino e costruivo capanne nei boschi, ho sempre sentito il richiamo della natura, la serenità che mi infonde, il senso di armonia nell’esserne parte. L’andare in alto è stata la conseguenza di questo richiamo laddove il silenzio delle montagne mi permette di ascoltare e ascoltarmi. Lì si ha molto da imparare se si è disposti a vivere senza maschere.

Per me non sono un problema le condizioni atmosferiche, ma un’opportunità, un regalo. In montagna mi sento a casa mia. Che diluvi, grandini, nevichi, che ci siano le fiumane che scendono dai canaloni, io mi sento sempre in armonia, non paura, ma rispetto assoluto per la natura.

Michael Tramontin in vetta al Cervino, sempre in solitaria. Autoscatto

Ti affascina il mondo del misto?

Molto. Ma nelle montagne di casa perché le Occidentali, i quattromila, sono lontani. D’inverno ripeto molte vie e da soli tre anni mi sono avvicinato anche allo scialpinismo, prima mi muovevo solo con le ciaspe, i ramponi o la picozza…

Ho però conosciuto il Monte Rosa, il Cervino, il Monte Bianco, il Piz Bernina e altre cime grandiose dove il misto c’è, anche se facile, e in quelle occasioni ero solo e per fortuna non ho trovato persone in giro.

Come programmi le tue uscite?

Per istinto. Attendo sempre il venerdì, ultimo giorno lavorativo, guardo le previsioni e mi faccio trasportare da qualche progetto, sogno, nome che il mio cervello ricorda con piacere. Il più delle volte prendo una delle guide grigie del Berti delle Dolomiti Orientali, e lì trovo quel che cerco, specie le vie di Severino Casara, che sono sempre un imperativo nel mio andare per monti.

Nel tuo andare per monti segui le orme di qualche alpinista del passato?

Sì, quelle di Severino Casara. Ho letto molti dei suoi libri. Mi piace come ha vissuto la montagna e com’è riuscito a trasmetterla. Mi sono avvicinato a lui un giorno che ero sulla Torre Comici (Tre Cime di Lavaredo) a ripetere una sua via. Ho poi approfondito la conoscenza di questo alpinista che mi affascina perché era un puro, una persona ingenua, nell’accezione positiva, e poi mi ritrovo in lui nella sua scrittura che è simile alla mia.

Di lui mi piaceva proprio il sentimento per e della montagna; lo stare lì e goderla pienamente, metro dopo metro, come si sentisse parte. Nelle Marmarole ho percorso tutte le sue vie Nord e pensare che un alpinista sia andato a cimentarsi in quei luoghi selvaggi e sconosciuti, dà la misura della sua tempra e della sua classe.

In vetta al Monte Bianco durante la solitaria. Autoscatto di Michael Tramontin

Almeno in tre occasioni, mentre stavo arrampicando lungo una sua via, ho sentito la sua presenza. Lo vedevo, lui mi sorrideva e nonostante i passaggi impegnativi, era come se lui mi rassicurasse, mi facesse da guida. Molti chiodi che trovo lungo le sue vie, alcuni davvero lunghi e con il moschettone, gli ho tolti perché li sento miei, e a casa ogni tanto mi piace accarezzarli, al loro posto ne ho messo di nuovi.

Oltre che a Casara, anche i fratelli Fanton sono per me dei grandi esempi di alpinismo.

In montagna preferisci la compagnia o la solitudine?

La solitudine perché se ci vai con qualcuno che non è in sintonia con te, l’attenzione se la prende il compagno e vivi la montagna in modo diverso.

Poi a me non piace correre, ma procedere senza frenesia e stress, invece ci sono molti alpinisti che ancora prima di partire parlano già a che ora devono essere a casa e così non godono niente della salita e dell’ambiente che gli ospita.

Michael Tramontin sulla cima della Croda Dell’Arbel (Gruppo delle Marmarole. Foto arch. M. Tramontin

Non pensi sia un limite vivere la montagna in solitudine?

No, perché in questa dimensione io mi ci trovo bene. So che è anche una forma di egoismo, ma è controbilanciata dalla mia volontà di divulgare l’alpinismo tra i giovani con la mia figura di Istruttore. Poi, se devo dirla tutta, quando sono con qualcuno, mi sento sempre responsabile per la sua incolumità e questo mi fa stare sulle spine, invece quando sono solo non ho paura e vivo come in una beatitudine.

Come coniughi il fatto di essere un istruttore di alpinismo e il volere vivere in solitudine la montagna?

Come istruttore mi piacerebbe trasmettere l’amore per la montagna e lo spirito di viverla senza competizione, ma mi sono trovato spesso a fare i conti con mentalità ottuse. Il sogno, che non è ancora svanito, era ed è quello di trasmettere la mia filosofia di alpinismo: portavo gli allievi in vie poco frequentate, lunghe, dove si doveva attrezzare le soste…, questo, secondo me è il modo per formare un alpinista.

Cosa cerchi tra le montagne?

La vita! Dal lunedì mattina al venerdì sera lavoro in un’officina e non vivo: è la solita tiritera di lavorare, mangiare e dormire che si ripete insulsa. Il venerdì sera, appena esco dall’officina e volgo col furgone verso le montagne, comincio a vivere perché la mia anima trova un senso ad essere in questa terra e solo in montagna riesco a stare bene con me stesso.

Qual è l’elemento della montagna con la quale ti senti più in armonia?

La neve perché è un elemento naturale aleatorio. Mi piace vedere le mie tracce, le impronte che mi lascio dietro e che poi scompaiono, ma soprattutto mi piace dormirci dentro. Scavare una truna, infilarmici e sentirmi avvolto e protetto, è un’esperienza bellissima, come quella di camminare nel sottobosco.

La silhouette di Michael, quasi a ricordare quella di Bruno Detassis, con sullo sfondo il Monte Cristallo e il Piz Popèna. Foto di Vittorino Mason

 Una volta ti ho visto fumare la pipa in cima a una montagna; è un vizio, un vezzo o una sorta di rito?

Un rito. Fumare la pipa una volta raggiunta la cima di una montagna, per me è ricordare gli alpinisti del passato. È un momento che mi fa sentire parte di quell’alpinismo classico che oggi è fuori moda.

Non mi interessano i gradi, ma lo spirito con cui un tempo si scalava le montagne e fumando la pipa vedo i volti di alpinisti come Sepp e Michael Innerkofler, Casara o Bruno Detassis. Mi sento uno fuori epoca, avrei dovuto nascere tra la fine ottocento e i primi del novecento…

Hai un furgone nella quale trascorri buona parte del tuo tempo; cosa significa per te?

Il furgone è la mia casa. Trascorro più tempo lì che non a casa. Mi permette di spostarmi in libertà. Posso evitare di dormire nei rifugi, di essere al punto di partenza già al mattino presto, di tornare a casa quando voglio evitando le lunghe code estive, di scegliermi i posti migliori dove trascorrere le serate in montagna.

Questo è il terzo furgone che cambio e trovo che sia mezzo e condizione fondamentale per vivere la montagna oggi.

Michael Tramontin nel suo indispensabile furgone-casa. Foto di Vittorino Mason

Bivacchi spesso in montagna…

Cosa c’è di più bello di trovarsi in un bivacco, magari con una stufa accesa, seduto a guardare la neve o la pioggia che cade, e lì, in quel momento di solitudine, poter pensare alla propria vita, ma non con tristezza come potrebbe succedere a casa, ma con serenità?

Stare in montagna mi fa sentire davvero bene. Mi sento a mio agio perché con me sto bene. Posso godere appieno del luogo e vagare nei meandri della mia mente senza disturbo alcuno. Lassù vivo veramente l’essenza della natura.

Poi in bivacco non mi faccio mancare niente e mi godo il piacere del cibo e del bere, per questo motivo il mio zaino è grande e in salita pesa sempre attorno ai diciotto chili. Ma le fatiche o la pioggia che prendo non mi pesano mai perché già il viaggio per portarmi a un bivacco è una bella esperienza che vivo sempre con rinnovato entusiasmo.

Bivacco sulla cengia di Cima Toro (Gruppo Dolmiti d’Oltrepiave). Foto arch. Michael Tramontin

Vuoi mettere l’esperienza di un temporale, di un arcobaleno, di una notte stellata, di passare una notte all’addiaccio sotto un anfratto, davanti a un fuoco che ti parla?

Questa è anche un’occasione per scrivere le tue riflessioni nei quaderni dei bivacchi e lasciare un ricordo dei momenti che hai vissuto…

Sì. Nelle mie uscite c’è sempre un Moleskine. Lui è il mio compagno perché, quando bivacco, spesso sono solo. È allora che i pensieri mi turbinano come sempre nella testa. Io li accolgo, ci parlo e cerco di sistemarli e metterli in riga nel mio diario di montagna. Ma non scrivo solo in bivacco, lo faccio anche durante una salita impegnativa.

Mi piace molto scrivere e in quei taccuini posso dire tutto ciò che ho vissuto nella giornata. Che sia solo o in compagnia, scrivo sempre. Uso una penna rossa per descrivere le vie più difficili, la verde per le vie d’ambiente, quelle lunghe, di ampio respiro, e le penne nere e blu che alterno a seconda delle situazioni, ma spesso la nera sta per esperienze negative, salite incompiute, mentre la blu è una sorta di jolly.

Uno dei tanti taccuini che accompagnano Michael Tramonti lungo le sue scalate. Foto: arch. M. Tramontin

Lunedi 21 giugno. Qui seduto sul prato sto proprio bene! Venticello, sole, fiori attorno, solo il rumore della funivia rovina l’istante.

Qui è un punto panoramico bellissimo. Ma l’uomo lo sfrutta troppo e quindi non è molto soddisfacente arrivare in cima e trovare il rifugio, guardi attorno e c’è sempre qualcosa di umano che deturpa il paesaggio di crode tutto attorno.

Almeno qui, se non mi giro, vedo il bel prato fiorito. Due tabià piccoli e graziosi e i valloni delle Marmarole di ieri, specie il Vallon dell’Arbel salito. La croda Baion, e il salto del Vallon dei Camosci. Che pace lì…

Tra le tante esperienze di bivacco, nel 2019 hai deciso di trascorrere una notte all’interno di una grotta usata dai soldati durante la guerra.

È stato un richiamo. Dovevo andare nei luoghi della Prima Guerra Mondiale per cercare di capire come potessero aver vissuto i soldati italiani e austriaci durante la stagione fredda. Non tanto per immedesimarmi nelle sofferenze e privazioni, quelle per fortuna io non le ho provate, ma per capire quali sentimenti possono scaturire rimanendo giorni e giorni in quelle situazioni. Così, dal 30 novembre all’1dicembre sono rimasto in una grotta sulle Tre Cime di Lavaredo, dove c’erano i soldati italiani, ma la settimana dopo ne ho trovata una anche sul Monte Rudo, dove c’erano gli austriaci, e anche lì ho potuto dar merito a quei poveri soldati che sono sati mandati lì a soffrire e morire.

Ma quelli non sono luoghi di guerra, ma di pace! Lì c’è una grande anima che parla e io sono andato lì per ascoltarla. Pensa che ho avuto la sensazione di vedere i volti di quei soldati e anche di sentire le loro voci…

Stare da solo in una grotta mi ha dato grandi sensazioni. Tu e la montagna, tu e il freddo, tu e il silenzio. Puoi stare ore ad ascoltare il nulla o guardare come il giorno passa e le sfumature del sole cambiano prospettive sui monti.

Bivacco invernale in un presidio di guerra della Cresta di Costabella (Gruppo Cristallo-Piz Popèna. Foto arch. Michael Tramontin

Mi racconti del Trittico invernale alle Tre Cime di Lavaredo?

Ho vissuto questa esperienza dal 23 dicembre del 2018 al 20 gennaio del 2019, in tre momenti e giornate diverse, scalando dapprima la Grande di Lavaredo, poi la Ovest ed infine la Piccola. Ho scelto le vie normali alle Tre Cime in quanto ricche di storia, bellissime e perché le vie normali sono i percorsi dei pionieri, ma anche perché sento un legame forte con alcune zone montuose.

Nella prima invernale ero in compagnia di un ragazzo giovane e in discesa, col buio, abbiamo avuto dei problemi. La seconda, alla Ovest, ero invece in compagnia di uno del Soccorso Alpino, bravo e attento nelle manovre, ma quando eravamo ormai in vetta, mancavano gli ultimi tiri, a causa dell’ambiente severo abbiamo avuto dei contrattempi, ma alla fine siamo riusciti a guadagnare la vetta.

L’ultima alla Cima Piccola, in solitaria, è stata la più dura delle tre invernali. Dall’avvicinamento in sci dal lago Antorno fino all’attacco, alla via esposta e delicata, con due tratti che mi hanno impegnato molto anche per autoassicurarmi. Ero su due appigli non buonissimi e mi son tirato su di peso e una mano è saltata perché avevo alcune costole doloranti per una caduta della settimana prima. Per superare quel passaggio ghiacciato e sul vuoto ci ho messo un’ora e mezza! Alla fine ho vinto la paura, le difficoltà e il dolore e sono salito.

Dopo il Camino Zsigmondy, dove ho lasciato lo zaino alla base e recuperato con la corda alla fine del passaggio, ho calcato la neve intonsa, liscia e azzurrina sotto la croce storta. Lassù era troppo bello! Sotto e attorno, un mondo bianco e silenzioso che brillava al sole. Sono rimasto in cima quasi due ore.

In discesa ho dovuto far una sosta su chiodo e spuntone perché ho sbagliato uno dei molti anelli e sulla penultima calata la corda si è incastrata e ho dovuto risalire, ma è stata una giornata fantastica e ho coronato un piccolo sogno.

In una scalata in solitaria quanto metti in conto il rischio e il pericolo di dovere contare solo su te stesso?

Quando approccio una scalata, pur essa impegnativa, io so cosa devo fare e cosa mia spetta. Studio e valuto prima le difficoltà in modo da poterla affrontare in sicurezza e ogni volta che rivolgo le mie attenzioni ad una cima, so che arriverò in vetta, ma non per presunzione, solo per un dato di fatto: dalle mie salite non sono mai tornato indietro se non dopo aver salutato l’ometto di vetta.

In libera e solitaria non vado mai oltre i miei limiti, ma ogni volta che si è presentato un ostacolo molto ostico da superare, sono riuscito a trovare la soluzione e continuare.

Con me ho sempre una longe di un metro e mezzo che collego a un tricam come fosse un friend, ma non per appendermi, solo per fare il passaggio, che una volta superato m’impone di ridiscendere, operazione ancora più difficile, per poi risalire. Comunque questo è sistema di sicurezza abbastanza aleatorio e se posso vado sempre in libera…

Un allegro Michael appeso a un fungo di roccia della Cima Emilia (Gruppo Dolomiti d’Oltrepiave). Foto arch. Michael Tramontin

Ti alleni e se sì, come?

No perché non ne ho il tempo. L’andare in montagna è il mio allenamento. Dedico ogni weekend a lei e questo basta per imparare e tenermi in forma.

Hai anche tu una lista di progetti?

Non scritta, solo nei miei sogni ed è quella che comprende tutte le vie di Severino Casara. Credo siano più di duecento? Una buona parte le ho già percorse, il resto sono lì che mi attendono per compenetrarmi ancor più nella sua figura. Alcuni mi hanno detto che sono la sua reincarnazione e a volte lo penso anch’io! Un giorno, sul Monte Navastolt, dopo aver ripetuto una sua via, in cima mi sono seduto sopra una roccia per farmi un autoscatto, poi a casa quando ho confrontato la mia foto con quella di Casara, ho potuto constatare che, tra le tante rocce disseminate sulla vetta, mi ero seduto proprio in quella che aveva scelto lui molti anni prima. È stata una grande emozione.

Hai mai pensato a un viaggio extraeuropeo per andare a scalare qualche cima in Patagonia o in Himalaya?

Sì, molte volte… Sarebbe davvero bello poter andare anche solo a vedere un ottomila. Dopo quelle mie poche esperienze a quattromila metri, che non ho trovato impegnative, mi piacerebbe avventurarmi anche più lontano e in alto, ma non ho né il tempo, né i soldi.

Cosa pensi dell’alpinismo odierno?

Quello di oggi non è più alpinismo, ma una corsa in montagna a chi fa di più, chi fa il grado più alto, chi va più veloce, una corsa e sfida ai record per essere visibili. Questo modo di andare in montagna io lo definirei sport. L’alpinismo è altra cosa. È darsi tempo, viverlo senza frenesia, è stare in ambiente, è vivere la montagna assaporando ogni forma che la compone, lasciarsi conquistare, viverla con sentimento. L’andare in montagna odierno è figlio del consumismo ed è difficile starne fuori.

Michael Tramontin: autoscatto sulla Cima Grande di Lavaredo

 Hai avuto anche tu il Covid. Come hai trascorso la quarantena?

Sì, ma niente di grave, ho avuto un leggero senso di affanno e perdita dell’olfatto, ma son dovuto rimanere a casa per diciassette giorni, una prigione, cosa mai successa prima. Ma poi, una volta terminata la quarantena mi sono preso due settimane di ferie e sono andato in giro per le montagne friulane: dapprima il Campanile di Val Montanaia, poi a conoscere posti nuovi, a visitare le cime delle linee della guerra e pensare.

Cosa non ti piace della società odierna e cosa ti tiene a distanza dalle persone?

La falsità e l’ipocrisia. Vedere persone che cercano in tutti i modi di atteggiarsi e indossare maschere per tradire gli altri e se stesse. Per questo motivo non posso e voglio sprecare il mio tempo e le mie energie con persone che non esprimono la loro essenza più intima. Credo che la sincerità, essere se’ stessi oggi sia qualità di pochi.

 Hai mai pensato di stabilirti in un paesino delle Dolomiti e vivere di montagna?

Come no! Ma sono nato e cresciuto qui e le vicende della vita mi hanno portato a trovarmi un lavoro a Ponte nelle Alpi. Mi piacerebbe vivere ad Auronzo, proprio sotto alle grandi montagne, ma di cosa vivere se i paesi di montagna si stanno spopolando? Comunque sia, se ci fosse la possibilità, un mestiere che mi piacerebbe fare è quello dello stradino di montagna. Ci sono molti sentieri che abbisognano di essere curati e anche bivacchi e casère.

Vittorino Mason