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15 Maggio 2015

Climbing · Insight · AdnKronos · arrampicata · bionergetica · Chiara Scialanca · Climbing Therapy · experience · Giorgio Tuscolano · incontri-sedute · Insight · Marco Bruci · psicoterapia

CLIMBING THERAPY. L'arrampicata come modello terapeutico

Fonte immagine: www.climbingtherapy.it

Fonte immagine: www.climbingtherapy.it

CLIMBING THERAPY. ARRAMPICARE: UN’ESPERIENZA INTIMA E PRIMITIVA

Trovarsi appesi a quattro metri da terra, su una parete di arrampicata indoor, con le braccia esauste e le mani in una presa, il sudore che cola sugli occhi a un passo dall’obiettivo – il cosiddetto Top – senza riuscire a toccarlo per completare la prova e maledire la stanchezza ma sentirsi bene lo stesso.

Perché? “Perché il fallimento e la caduta sono valori da riscoprire, soprattutto nella nostra cultura, per uscire dalla richiesta tirannica di essere sempre vincenti”. E’ quanto raccontano all’Adnkronos due psicoterapeuti, l’analista bioenergetico Marco Bruci e l’analista transazionale Chiara Scialanca, che dal 2012 tengono a Roma una serie di incontri-sedute di Climbing Therapy assieme a Giorgio Tuscolano, arrampicatore laureato in scienze motorie.

Un’attività che può essere rivolta a chi già fa un percorso terapeutico ma anche a chi vuole partecipare ‘spot’ a giornate tematiche, dedicate ad ansia, paura o dipendenza affettiva, pur non avendo una psicoterapia in corso e non avendo mai arrampicato. Perché, afferma Scialanca, “uno degli aspetti stimolanti è legato all’esperienza di contatto con sé, indipendentemente dal livello di consapevolezza del ‘bisogno’ terapeutico”.

L’idea di unire due attività apparentemente distanti – una molto fisica, l’altra totalmente mentale – nasce dalla convinzione che “l’arrampicata sportiva mette le persone in contatto con tematiche ricorrenti in psicoterapia come la regolazione delle proprie emozioni: paura, rabbia, impotenza, l’orientamento verso obiettivi, la gestione delle frustrazioni, l’autonomia e la dipendenza o la fiducia in sé e nell’altro” aggiunge.

Il rapporto tra ‘contatto con la parete’ e ‘contatto con se stesso’ rappresenta “il trampolino di lancio e il punto di partenza per la costruzione del modello terapeutico della Climbing Therapy sottolinea l’Analista Transazionale – arrampicare è un’esperienza intima e primitiva”.

“Intima – prosegue Scialanca – perché consente di esperire emozioni e sensazioni in modo amplificato su un obiettivo che possiamo metaforicamente ricondurre alla vita, fatta di obiettivi, passaggi difficili, blackout e successi o cadute. Primitiva perché le nostre origini stanno nel contatto con la natura, nella capacità di modellarci, così come dobbiamo fare accarezzando e aggrappandoci alla roccia”.

Un percorso che mette in evidenza l’importanza di un’‘educazione’ a sperimentare paura, vuoto, limiti. “La Climbing Therapy mira a recuperare il potere di riconoscere e gestire in modo accogliente la paura in tutte le sue sfumature, fino al panico. Il nostro lavoro – racconta – permette di dare senso e padronanza e quindi anche di ‘educare’ all’esperienza del vuoto ambientale, esistenziale, affettivo” .

Educazione al limite, da una parte. Riconoscimento dei messaggi del corpo, dall’altra. “Dobbiamo ritrovare quella comunicazione naturale con noi stessi – ricorda Marco Bruci – e quindi con il corpo. Una comunicazione che spesso viene interrotta durante i primi anni di vita a causa di eventi esterni (familiari, sociali, culturali). Dovremmo smettere di considerare mente e corpo come entità scisse e sentirle parti di una stessa unità, noi stessi”.

In fondo, aggiunge lo psicoterapeuta, corpo, mente ed emotività ‘parlano’ un linguaggio che “appartiene a tutti, anche se in molti lo hanno ‘dimenticato’. Per capirlo bisogna ridare fiducia e spazio alla propria parte sensibile, empatica e istintiva creando un’integrazione con la razionalità. E la Climbing Therapy – ma non sempre l’arrampicata sportiva – facilita questa integrazione in quanto, per procedere nella scalata e per raggiungere i propri obiettivi, porta la persona a contattare questi aspetti e a connetterli tutti, senza negare nessuna parte”.

Un percorso, prosegue Bruci, che può essere “utile a tutti, un’esperienza che porta a conoscerci di più”. E anche se, aggiunge Scialanca, “spesso si arriva in terapia in seguito a un evento doloroso, una separazione, un lutto, un licenziamento, o in presenza di sintomi invalidanti, come gli attacchi di panico, penso alla terapia come ad un’occasione per definire la propria vita in modo libero e attento, rispettoso di sé e degli altri”.

Del resto, ricorda l’Analista Transazionale, citando le parole del 1961 dello psicologo canadese Eric Berne, “ognuno nasce principe o principessa ma esperienze negative precoci convincono alcune persone ad essere ranocchi. Gli obiettivi terapeutici tendono a curare e a guarire, che significa togliersi la pelle del ranocchio e riprendere nuovamente lo sviluppo interrotto del principe o della principessa”.

In contatto con il proprio corpo. Perché, aggiunge Bruci ricordando lo statunitense Alexander Lowen, “ogni persona è il proprio corpo. Se voi siete il vostro corpo e il vostro corpo è voi, allora il corpo esprime chi siete. E’ il vostro modo di essere nel mondo. Più il vostro corpo è vivo, più siete nel mondo”. Affinché ognuno possa dire: ci sono, sono io, sono qui, ora.

(fonte: www.adnkronos.it)

Ulteriori info: info@climbingtherapy.it

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