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24 Giugno 2020

Confortola intervistato da Roccati: ripido, concatenamenti e sicurezza

Cari amici,
il Covid quest’anno ha cambiato i piani e l’esistenza a tutti noi, ma ci ha dato anche modo di pensare e di vedere le cose da una prospettiva diversa, arrestando la nostra corsa a testa bassa. Qualche giorno fa ho avuto un dialogo con l’amico Marco Confortola e ho pensato di intervistarlo nella stessa ottica; ho voluto chiedergli non solo di Himalaya, ma anche dei tanti lati che sono magari passati in secondo piano…

Non la “solita” intervista a un super big che viene mostrato come un super uomo, con foto patinate e riflettori, ma davvero un semplice scambio tra appassionati di montagna.

Marco, tu sei famoso per vari motivi, ma soprattutto per essere il “Cacciatore di 8000”. Se c’è una cosa che il Covid ci ha insegnato, è fermarci un istante a guardare in casa nostra. Prima dell’Himalaya, in primavera, tu vivevi sulle montagne delle tue valli, con realizzazioni incredibili senza ripetizioni o quasi. Vorrei mi parlassi delle tue discese ripide ed estreme.
Lo sci estremo per me è sempre stato qualcosa di particolare, essendo un maestro di sci. Mi ha sempre attirato e ho cominciato con la nord del Tresero, scendendo la via dei seracchi e poi la parete nord del Pasquale. Rendendomi conto delle mie possibilità ho iniziato a guardare la nord dell’Ortler: una parete difficilissima, dove se sbagli non serve un bravo ortopedico, ma un fiorista!
Dovevo testarmi, ma potevo farcela. Così prima ho sceso la nord del San Matteo, partendo dalla punta e non “solo” dalla cresta. Son salito con un cliente e poi mi sono preparato per scendere, mentre una guida francese stava scuotendo la testa perché secondo lui non era possibile. Alla fine ho affrontato l’Ortler, ciò che considero il mio capolavoro sul ripido… Tutt’oggi ci sono solo due ripetizioni, una è di un austriaco e una è la mia. Ebbi la soddisfazione di essere fermato da un alpinista che aveva scalato in piolet traction e non riusciva a capire cosa fossero gli sbaffi sulla parete… erano le mie tracce.
L’amputazione di parte dei piedi in conseguenza all’avventura del K2, mi ha obbligato mollare un po’ il ripido, ma poi mi sono ripresentato scendendo la parete nord del monte Pasquale. Volevo capire cosa fosse cambiato nel mio corpo. Sul ripido è davvero difficile, con 8 centimetri in meno, una leva minore, senza la stessa sensibilità…

Non è soltanto lo sci estremo a interessarti, le prove fisiche e mentali hanno sempre fatto parte di te. Ci siamo incontrati molte volte e mi farebbe molto piacere sentirti raccontare bene dei concatenamenti: 4 pareti nord e 5 pareti nord, mi ricordo bene!
Ho cominciato a sognare di concatenare più pareti in giornata quando vidi i mostri sacri dell’alpinismo, i francesi Jean-Marc Boivin e Christophe Profit e la triade delle nord Eiger, Cervino e Granes Jorasses con i trasferimenti in elicottero nell’85.
Provai nel mio piccolo con le pareti nord del Tresero, Pedranzini, Dosegù, San Matteo e Cadini, in giornata in solitaria e senza elicottero. Fu una bella prova e una grande soddisfazione.
Così ho progettato e realizzato le pareti nord più difficili che abbiamo nelle nostre montagne: Ortler, Gran Zebrù, Piccolo Zebrù, Tresero, sempre in solitaria e in giornata. Tuttora questa è l’unica realizzazione. Ho dedicato questo concatenamento a tutte le mamme del mondo perché sono il pilastro della famiglia: in particolare a Silvana Cortinovis, la moglie di Agostino da Polenza, che il 26 luglio del 2004 è mancata, quando i “ragazzi” hanno raggiunto la cima del K2.

Dev’esser stata un’emozione davvero grande, ma non dev’esser stato facile sotto alcun punto di vista…
Se mi guardo indietro e penso che ho organizzato tutto da solo… Durante l’esperienza delle quattro pareti avevo un equipaggio con due elicotteri e persone che filmavano… un’organizzazione pazzesca. Nell’ultima parete ero sfinito… rimasi a terra prima di attaccarla, per dieci minuti in un piazzale ad allungarmi. Sapessi i crampi… Non viene provato solo il corpo, ma anche logorata la mente: sei appeso nel vuoto con due picozzine, slegato, e non puoi sbagliare.

L’ultima volta ci siamo incontrati a Finale for Nepal, la grande manifestazione di solidarietà, lo scorso settembre. Tu come al solito stavi dando una (grande) mano e mi parlasti del coaching e dei custodi della montagna…
Dopo la sciagura del 2008 al K2 ho avuto un po’ di notorietà… I medici mi dissero che non avrei più camminato con le mie amputazioni, ma solo zoppicato: basta arrampicare, sciare e Himalaya; mi suggerirono un supporto psicologico e io non ero d’accordo e non lo sono ora. Piangendo dissi… «mi arrangio». Porto avanti ogni giorno la mia vita con la mia volontà, anche come formatore. Mentre parliamo ho i piedi in ammollo, perché ho corso un’ora e mezzo e ho un male immenso, ma non mi fermo.
Determinazione e notorietà: sto provando a usarle per aiutare i custodi della montagna. Sono i montanari, gli agricoltori, i malgari, i rifugisti e le guide alpine. La montagna è bella perché viene appunto custodita. Quel po’ di fama che ho accumulato pian piano, nel mio piccolo, riesce ad aprire alcune porte. Se non ci fossero gli agricoltori che falciano, controllano i corsi d’acqua o i rifugisti che accolgono o le guide alpine che accompagnano o ancora i montanari. Sono i custodi e io provo ad aiutarli per amicizia o semplicemente perché lo reputo giusto: non ci guadagno niente. I montanari alle volte hanno una mentalità un po’ chiusa e non capiscono cosa faccio o perché, mi attiro persino gelosie o inimicizia, ma ci provo lo stesso.

Un altro argomento molto, molto importante di cui ti ho sentito parlare è la sicurezza, derivata non solo dalla preparazione, ma anche dalla cultura. Tu sei un tecnico di elisoccorso e una guida: penso che tutti si ricordino il salvataggio a quasi 8000 metri… cosa puoi dirci al riguardo?
Son venti anni che lavoro nel soccorso e ho raccolto molte persone morte. Alcune per sfortuna… perché purtroppo alle volte è anche quello il problema. Non è vero che la sfiga non esiste! Ma moltissimi altri incidenti derivano dalla sottovalutazione dei rischi o per la preparazione. Tre anni fa creai un gioco in scatola che doveva essere non solo divertente, ma far capire la complessità delle salite, i pericoli e ovviamente la cultura della montagna. Purtroppo era un po’ laborioso e questo poteva essere un problema. Con il Covd-19 siamo rimasti tutti bloccati e allora mi sono messo d’impegno e l’ho rifatto completamente… e l’ho anche tradotto in inglese! Giocando in questa versione s’imparano le regole base della montagna e tutti i punti principali relativi a essa. Le norme sanitarie, i parchi, la storia dei grandi alpinisti, il comportamento e l’educazione civile, il Club Alpino… Ricordo quando a scuola si insegnava educazione civica: be’ questo gioco insegna o suggerisce come vivere la montagna in sicurezza.
I progetti sono tanti. Ora per esempio sto cercando di far creare tutta una serie di piazzole per il soccorso in notturna, per dare sicurezza ulteriore alla gente che vive in montagna. Ho creato dieci piazzole nei rifugi della Val Furva, la mia valle, per permettere all’elisoccorso di entrare in funzione in qualsiasi momento!

Quando mi hai parlato della mentalità un po’ chiusa credo sia universale: penso agli haters o ai leoni da tastiera. Ci sarà sempre chi dirà “chissà cosa ci guadagna” o “perché lo fa”
Ovviamente! …ma è un progetto senza scopo di lucro: ci credo e preferisco sacrificare un po’ di tempo alla famiglia, ai miei amori, che alla fine mi capiscono, ma mettere insieme qualcosa che serva alla comunità. L’elisoccorso è fondamentale. Se pulisco un sentiero con l’escavatore per agevolare l’accesso a un rifugio, lo faccio per donare. Siamo parte di una comunità: io vivo la montagna a 360° e provo a fare il mio.

Christian Roccati
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