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5 Novembre 2018

LUCA COLLI: Running Seven Summit

Cari amici anche incontriamo un personaggio particolare, poliedrico, con una grande passione per la montagna unita alla semplicità e schiettezza personali.

Ogni giorno siamo bombardati da notizie che riguardano i soliti e conosciuti nomi, che meritano assoluta visibilità, ma non unico focus. Tra congressi, conferenze, festival, spedizioni, viaggi e meeting, ci si imbatte in centinaia di uomini e donne di grandissimo valore, alcuni di essi particolarmente brillanti e non per questo poco umili.

…è il caso di Luca Colli, alpinista estremo di Vigevano, classe 1969, uno di quegli uomini in grado di sognare e di portare a termine i propri progetti. Ci è capitato di intervistarlo più volte e, dopo qualche anno, di collaborare con lui per un gran bel progetto.

Luca è, tra le tante cose, un preparatore atletico, una guida AMM, e prima di tutto rappresenta il confine mai tracciato tra i runner estremi d’alta quota e gli alpinisti da velocità. Prima di tutto questo Luca è una persona straordinaria e particolare che vale davvero la pena davvero di conoscere!

Cos’è Running7Summit?
Il progetto Running7Summits nasce dall’idea di creare qualcosa di unico e mai tentato prima in ambito alpinistico. Dopo aver salito nel 2008 in velocità dieci vette oltre i 4.000 metri di altitudine del gruppo del Monte Rosa in 9 ore e 20 minuti, nel 2009 ho partecipato, come primo e unico alpinista italiano, alla terribile Elbrus Race, gara di salita in velocità al Mt. Elbrus (5.642) stabilendo il record italiano di velocità tutt’ora imbattuto. In quel momento ho pensato di tentare ciò che nessun alpinista ha mai provato fino a ora: salire le vette più alte di tutti i continenti, secondo tutte le interpretazioni geografiche, in velocità, dal campo base alla vetta, senza sosta, senza supporto esterno, senza sci, senza ossigeno. Quando il progetto si concluderà, avrò creato anche un’ulteriore lista, la “Lista Colli”, che comprenderà anche il trittico di cime in Oceania.

Quali vette hai raggiunto finora?
Per quanto riguarda il circuito delle Seven Summits, al momento ho scalato: Mt. Bianco (4.810 Italia), Mt. Elbrus (5.642 Caucaso), Mt. Kilimanjaro (5.895 Tanzania), Mt. Kosciuszko (2.228 Australia), Mt. Aconcagua (6.962 Argentina), Mt. Denali/MecKinley (6.198 Alaska), Mt. Enduwa Kombuglu/Wilhelm (4.509 Papua Nuova Guinea), Mt. Punkac Jaya/Piramide Carstensz (4.884 Papua Indonesia), Mt. Aoraki/Cook (3.724 Nuova Zelanda).

Quali ascensioni come tour leader di una spedizione?
Come capospedizione e tour leader sono stato 5 volte in vetta al Kilimanjaro, 3 volte in vetta all’Elbrus, 2 volte in vetta all’Aconcagua.

Qual’è il tuo prossimo obiettivo?
Sto preparando la Direttissima all’Everest dal versante Tibetano: partirò dal campo base avanzato e cercherò di raggiungere la vetta in una sola salita senza sosta.

Come prepari la traversata del Kilimanjaro di norma?
Solitamente consiglio ai clienti che fanno parte dei miei Team una preparazione fisica molto simile a quella che seguo quando mi alleno per le mie spedizioni. Non altrettanto dura, ma il principio da seguire è lo stesso. Raccomando, per chi può, allenamento con i pesi per tonificare e potenziare il corpo. Inoltre consiglio di aumentare e mantenere la capacità aerobica e cardiovascolare attraverso corsa in piano. Seguono poi uscite in Montagna per potenziare e allenare la muscolatura delle gambe e della schiena e salite in alta quota oltre i 4000 per arrivare ben acclimatati ad affrontare l’ultima notte, quando c’è lo strappo finale verso la vetta.

Com’è la sua salita?
Il Kilimanjaro è una montagna meravigliosa: un antico vulcano dormiente. E’ la Montagna solitaria, cioè che non fa parte di una catena montuosa, più grande al mondo. La sua massa è tanto enorme da influenzare il clima dell’intera regione circostante, creando condizioni uniche. Si parte dalla savana per attraversare pinete e foreste di conifere. Si giunge alla vegetazione d’alta quota e all’incredibile deserto multicolore fino a inerpicarsi su, oltre i 5.000, sul cono vulcanico e, quando meno te lo aspetti, ammirare il ghiacciaio. Tra le scalate che propongo è la più “facile”, perché è un’opportunità unica per il viaggiatore, di vivere l’esperienza di una salita avventurosa pur mantenendo ancora alcune “comodità”.
Infatti, durante il trekking di avvicinamento di tre giorni, il Team deve solo preoccuparsi di camminare con calma, acclimatarsi respirando e godersi i bellissimi panorami: al resto pensa il servizio logistico locale, impeccabile, che garantisce il trasporto dei materiali personali e da campo. Alla fine di ogni giornata, il Team giunge alla meta trovando il campo già montato, con le tende allestite, the caldo e merenda. Dopo il meritato relax, Remmy, il nostro chef da campo, prepara una gustosa e abbondante cena. Con questo non voglio dire che sia una passeggiata: sebbene non via sia alcuna difficoltà tecnica, né tratti ripidi, l’avvicinamento consiste in tre tappe durante le quali si coprono a piedi svariati kilometri ogni giorno e 1000 metri di dislivello per ciascuna, partendo da 1.800 metri di quota fino ad arrivare, il pomeriggio antecedente la salita in vetta, al rifugio Kibo a 4.700. Praticamente in cima al Monte Bianco! Anche se ben acclimatato, il Team deve affrontare la sfida più dura proprio per raggiungere la vetta: sulle nostre Alpi non si può andare oltre i 4.800 metri, quindi ciò che accade al nostro corpo durante l’ultimo strappo fino ai 5.895 metri della vetta nessuno è in grado di prevederlo. Il segreto sta nella frase “Pole Pole” (piano piano) che le guide locali ripetono all’infinito. La salita è indubbiamente dura: si parte intorno a mezzanotte e si sale lungo il fianco ripido della Montagna Che Brilla, come la chiamano i Masai. Ogni membro del Team è esposto al buio, al vento, al freddo ed è solo con i propri pensieri… ma alla fine, una volta raggiunto il Gilmann’s Point, a quota 5.600, si apre davanti a noi lo spettacolo del ghiacciaio e dell’incredibile alba sulla montagna più alta dell’Africa. Gli ultimi 285 metri si percorrono sempre sull’onda dell’entusiasmo e della meraviglia, ammirando gli incredibili riflessi del ghiacciaio colpito dai primi raggi del sole. L’alba sul Tetto dell’Africa è uno spettacolo unico e commovente, che ti rimane dentro per sempre. Per questo, la notte della salita, quando il Team è in posizione e in fila, prima di dare a ognuno una pacca sulla spalla e guardarlo negli occhi, dico a tutti loro che stanno per fare qualcosa di unico: qualcosa che nessuno potrà mai togliergli. Non devono preoccuparsi se piangeranno, una volta in vetta.

Che montagna è l’Elbrus? Perché Salirla?
L’Elbrus è chiamato “Il Gigante Bianco”, ed è proprio un gigante ricoperto di ghiaccio. Anche questa montagna è un antico vulcano dormiente ed è caratterizzata dalla “doppia cima” (le due vette differiscono di pochi metri). La salita all’Elbrus rappresenta un’esperienza di livello superiore per i membri degli Extreme Team: non sotto l’aspetto tecnico, poiché non c’è nulla di difficile, ma dal punto di vista fisico e ambientale. Infatti, nonostante anche in questo viaggio vi sia una logistica locale molto efficiente, che si occupa dell’allestimento del campo e della preparazione dei pasti, la salita avviene, tranne l’avvicinamento al campo base, interamente su ghiaccio, con corda piccozza e ramponi. I pendii sono più ripidi rispetto al Kilimanjaro e la regione dell’Elbrus è soggetta a forti venti e a bufere fredde che posso diventare veramente molto, molto pericolose. L’ambiente è però grandioso: il contrasto tra il bianco immacolato del ghiaccio oltre i 5.000 e il blu del cielo è un vero spettacolo. Dalla vetta si ammira tutta la catena montuosa che separa il Caucaso e la Georgia, composta da bellissime cime tutte oltre i 5.000, tra le quali spicca la fantastica doppia cima del Mt. Ushba.
Perchè salire l’Elbrus? Perché, aldilà dell’importanza internazionale della montagna, che fa parte del circuito Seven Summits ed è sede della skyrace più alta d’Europa, l’Elbrus è parte di un percorso di crescita alpinistica e avventurosa che i membri degli Extreme Team mi chiedono. Se il Kilimanjaro rappresenta un primo passo nell’Avventura, con l’Elbrus i Team cominciano a provare l’emozione di una piccola spedizione alpinistica.

Cosa si prova a fare l’Aconcagua dal percorso che tu segui?
Alle persone che mi chiedono di salire l’Aconcagua io dico sempre: “Bene, hai deciso che da oggi giochi in serie A”. L’Aconcagua è una montagna che, pur non presentando particolari difficoltà, fa parte della “Serie A” delle grandi vette, prestigiose ed internazionali. La Sentinella di Pietra, come la chiamano gli Andini, è un immenso colosso di granito di quasi 7.000 metri di altitudine che mette l’alpinista, o meglio, l’andinista, alla prova dal primo metro di cammino oltre il cancello del Parco Nazionale fino all’ultimo metro al di fuori del parco, quando si rientra. Il servizio logistico è garantito fino al campo base a 4.200. Oltre il campo base, anche se si possono affittare dei portatori, ogni spedizione deve essere autonoma. Questo significa grande impegno fisico e mentale. La concentrazione deve essere massima. Sull’Aconcagua si percepisce l’immane potenza di Madre Natura. La salita è una vera spedizione e la percentuale di successo è del 50%: uno scalatore su due non raggiunge la vetta. Ma i colori delle Ande, l’aria sottile dei 7000, l’intima esperienza della fatica e della tenacia che occorrono per arrivare in vetta rappresentano un’esperienza mistica. Per gli Extreme Team l’Aconcagua è la prima vera spedizione. Ho sempre pianto in vetta. Mai come sulle montagne della “Serie A” vale la frase che dico ogni volta: “In Montagna si parte come amici e si torna come Fratelli”.

E il Denali?
“L’anticamera degli 8000”. Un mostro di ghiaccio e roccia. La montagna più fredda del mondo, lassù, in Alaska. Tre settimane in completa autonomia, senza alcun servizio logistico né soccorso, trascinando una slitta di 50kg a testa e con uno zaino in spalla di almeno 10kg. Temperature che possono crollare a -40° anche in estate e venti fino a 140Km/h. Meteo prevalentemente sfavorevole. Questo è il terreno di gioco sul quale ogni Team si deve confrontare. Qui cambia anche tutta l’attrezzatura: il Denali va affrontato con gli stessi materiali che si userebbero sull’Everest, perché le condizioni ambientali sono le stesse. Se fallisci sul Denali, lascia stare gli 8000. Viceversa: se fai bene sul ghiaccio dell’Alaska, puoi pensare di affrontare gli 8000. Un’esperienza però che ti rimane dentro per tutta la vita. Ancora adesso, a distanza di quasi sei anni, quando rivedo il video della spedizione del 2013, mi emoziono fino alle lacrime. E’ stato come essere dentro un documentario del National Geographic. Salire il Denali vuol dire paragonarsi a Messner, Kukuzka, Fogar. I miei idoli di bambino. Significa avverare un sogno.

Quali altre 7summit hai raggiunto e perché salirle?
– Mt. Bianco (4.810): perché è la Storia dell’Alpinismo mondiale.
– Mt. Wilhelm (4.509): perché è fuori dai grandi circuiti internazionali ed è una spedizione che ha ancora un sapore quasi ottocentesco, a contatto con popolazioni che raramente vedono l’uomo bianco. “Il Dottor Livingstone, suppongo.”
– Mt. Punkac Jaya (4.884): il trekking più duro e pericoloso del mondo. Il perché è tutto in questa frase. Affrontare a mani nude 100km di giungla per arrivare a scalare una montagna nel cuore della foresta. Un’esperienza che non si può raccontare completamente se non la si è vissuta.
– Mt. Aoraki (3.753): perché, a dispetto dell’altezza, è una delle montagne tecnicamente più impegnative. Una parete di ghiaccio che arriva fino a 65°. Una cresta sottile e aerea. Una piccola vetta, stretta e battuta dal vento, lassù, oltre le nuvole. Il dio Aoraki, “Il Perforatore di Nubi”, ti attende.

Che cos’è l’eXtreme Team Kailas?
L’Extreme Team di Kailas nasce da un’idea di Marco Montecroci (il fondatore di Kailas), mia e di Christian Roccati. A dispetto del nome, non si propongono salite e trekking terribili, ma esperienze da vivere. Si propone un percorso di miglioramento che permetta di affinare la propria capacità esperienziale e di movimento in ambiente “ostile”. Chi ha partecipato a trekking impegnativi, ma non ha mai salito una montagna, attraverso l’Extreme Team può pianificare una spedizione. Quando la persona decide di partecipare ad un viaggio Extreme entra a far parte di un Team, una squadra, che oserei definire d’elite, proprio perché i partecipanti vivono prima di tutto un’esperienza, non solo un viaggio. Il percorso inizia sempre prima della partenza e, attraverso le uscite di allenamento con me e Christian, ci si prepara fisicamente, si costruisce e si cementifica un gruppo che non vivrà unicamente il viaggio spedizione, ma rimarrà legato per sempre (“In Montagna si parte come amici e si torna come Fratelli”). Devo dire che dopo il viaggio, spesso i membri dei Team si frequentano e vivono altre esperienze insieme.

Cos’accade il 25 novembre?
Domenica 25 Novembre ci sarà un bellissimo evento: il primo Extreme Day, dove i Team che hanno partecipato alle spedizioni e ai trekking degli anni scorsi potranno conoscersi e scambiare sensazioni, esperienze, pareri e consigli. Non sarà un evento riservato, ma aperto a chiunque voglia vivere una giornata di scambio e voglia informazioni sui viaggi Extreme. La mattina, meteo permettendo, ci sarà un’escursione con me e Christian, mentre al pomeriggio verranno illustrati i programmi per il 2019. Un evento da non perdere!

Dopo l’Everest, se la dea Madre ti permetterà di salire in vetta, su quali progetti ti sposterai?
Dal punto di vista personale lavorerò per terminare il progetto RUNNING7SUMMITS con l’ultima salita, al Mt.Vinson (4.892) in Antartide, dove spero di stabilire il mio ultimo record di velocità. Professionalmente invece, l’Extreme Team si sta aprendo verso il circuito Snow Leopard (storico circuito dell’alpinismo sovietico che prevedeva la salita di cinque vette oltre i 7000 nel Pamir) allestendo la spedizione al Peak Lenin (7.134). Ci stiamo lavorando. Anche il Muztagata (7.546) in Cina è tra i nostri obiettivi. La zona è bellissima e fuori dai grandi circuiti turistici: veramente un’avventura d’altri tempi.

Cosa diresti a un ragazzo che si accinge a far montagna?
Gli direi di essere forte: caratterialmente, intendo. Andare in Montagna comporta fatica, tenacia, testardaggine. Molti, negli anni, abbandonano lungo il percorso. Gli direi anche di abituarsi alla solitudine. Freddo, fame, fatica: la Montagna è questo e la gente non capisce, perciò è difficile trovare compagni d’avventura. Ma quando sei lassù, nel blu, dove solo i pochi giungono, capisci che quel tesoro, quel premio di pochi minuti durante i quali nessuno ti applaude, è qualcosa che nessuno ti porterà mai via.