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30 Settembre 2010

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PAKISTAN WINTER SPORT Hervè Barmasse racconta l’ultima spedizione North Face

Quando The North Face ha deciso di finanziare il “Pakistan Winter Sport”, nonostante mi sentissi felice e motivato per questa nuova avventura, ho sentito una grossa responsabilità sulle spalle; ero la mente di questo progetto invernale che, oltre agli obiettivi alpinistici a me tanto cari, cercava di abbracciare motivazioni di natura umanistica e sociale.

L’obiettivo della spedizione, oltre all’apertura di nuove cascate di ghiaccio e lunghe discese con gli sci da montagne inesplorate, era quello di mettere a disposizione le mie conoscenze di istruttore delle guide e di tecnico del soccorso alla Shimshal Climbing School.

L’intento era quello di aiutare una comunità di portatori a progredire sia dal punto di vista tecnico che della sicurezza. Inoltre, grazie alla collaborazione del Dott. Marco Cavana, avremmo organizzato un dispensario per affrontare i problemi legati agli aspetti medico-sanitari della zona.

L’inverno Pakistano, Shimshal e i suoi portatori.

Shimshal Valley, 20 gennaio 2010

Siamo la quindicesima spedizione alpinistica invernale nella storia del Pakistan. Sono in compagnia degli alpinisti Kris Ericson e Eneko Pou, il giornalista e alpinista Oscar Gogorza e il Dott. Marco Cavana. Ci troviamo al Nord, nella regione del Baltistan Gilgit, quasi sul confine con la Cina. A differenza dell’estate dove campi di cereali, alberi e verdi pascoli contrastano il color marrone delle rocce e del terreno asciutto, ora è tutto grigio. Tutto appare ai nostri occhi come in un film in bianco e nero.

Il freddo si fa sentire anche a bassa quota e sopra i 1600 m è tutto completamente gelato.
Procediamo sulle nostre Jeep a passo d’uomo su una strada sconnessa simile ad una nostra mulattiera. La via d’accesso al paese di Shimshal, è stata letteralmente strappata alla montagna grazie alla forza di volontà dei suoi abitanti, che senza l’utilizzo di mezzi meccanici l’ha costruita in 23 anni di duro lavoro di “picco e pala”. Questo spettacolare percorso in fuoristrada giustificherebbe, da solo, un viaggio in Pakistan.

Shimshal è un villaggio di 2000 persone che per 600 anni è rimasto quasi totalmente isolato dal resto del Pakistan. Pur mantenendo le radici islamiche/ismaeliti, questa gente sembra meno rigida e più aperta rispetto ad altri abitanti delle montagne Pakistane; anche le donne non tradiscono questa nostra sensazione; non si nascondono e rispondono al nostro saluto con un sorriso. Nel villaggio non esiste acqua corrente, non esiste telefono né televisione e solo alcune famiglie hanno installato un piccolo pannello solare che garantisce la luce per tre ore durante le lunghe notti invernali.

Ci sono tre moschee ed una scuola nella quale gli studenti si recano dopo aver raccolto la legna che qui in Pakistan è un bene raro. Tutti gli studenti imparano l’inglese e chi può permetterselo all’età di 17 anni continuerà gli studi a Gilgit. Non ci sono dottori e l’ospedale più vicino (adesso ci si arriva in un’ora, prima della costruzione della strada ci volevano sei giorni) è quello di Gulmit dove un medico generico provvede alle urgenze senza l’ausilio di macchinari.

La comunità è molto unita e gli abitanti si aiutano tra di loro come una grande famiglia. Qualsiasi problema, è un problema per Shimshal e non per la singola persona. Patate, riso, chapati, dal, piselli e fagioli vengono dosati preziosamente per far si che non si rimanga senza provviste prima della nuova raccolta. Di tanto in tanto si mangia carne di capra o yak. A differenza dall’estate non ci sono polli e galline perché non sopravvivrebbero alle rigide temperature dei mesi invernali. Anche lo yak è una caratteristica di Shimshal. Difficilmente si incontrano questi animali in Pakistan ma nella valle dello Shimshal, posta sul confine con la Cina, ne esistono migliaia di esemplari allo stato brado.

Il “malida” (chapati, formaggio, burro e sale), il “graal” (chapati, spezie, burro e sale) o il “chalpindook” (chapati e formaggio) sono i piatti poveri e tipici di questa zona. Essi vengono consumati quasi ogni giorno. La temperatura durante i 5 mesi dell’inverno Pakistano è costantemente parecchi gradi sotto lo zero – da meno 12 fino a meno 20 –   ed in casa vicino alla stufa difficilmente si superano i 5 gradi. L’impressione è che questo paese durante l’inverno attenda con pazienza l’estate nello stesso modo in cui 150 anni addietro facevano i nostri “vecchi” sulle Alpi.

Anche le case sono particolari nella loro struttura. Un’unica stanza con una stufa al centro e un’apertura sul tetto accoglie tutta la famiglia: nonni, genitori, figli. Nella stessa stanza si cucina, si dorme e si vive la quotidianità di una casa. Per gli abitanti di Shimshal l’inverno e le giornate trascorrono sempre uguali: al mattino le donne preparano una colazione a base di tè e latte con chapati immerso nel burro fuso e le figlie prima di andare a scuola vanno a raccogliere la legna o l’acqua. Una sorgente, l’unica che non ghiaccia, garantisce l’acqua potabile a tutto il paese e durante tutto il giorno le donne pazientemente aspettano il loro turno per caricare le taniche.

Gli uomini costruiscono e sistemano le case, fanno legna e sistemano i muri e aspettano l’estate per lavorare come portatori e portatori d’alta quota. Nel villaggio di Shimshal più di 40 persone hanno salito una montagna di 8000 metri e Rajab Shan, l’unico Pakistano ad aver salito tutti gli 8000 del Karakorum è nato qui. E’ considerato un vero eroe in tutto il Pakistan.

A un passo dalla morte.

Ho sempre cercato di allontanare il pensiero della morte come se l’argomento non mi riguardasse, come se in qualche modo fossi immune da questo pericolo. Eppure so perfettamente che la verità è un’altra, che la storia dell’alpinismo insegna l’esatto contrario: per chi va in montagna la morte non rappresenta certo un’ipotesi remota. E quando questo succede, pur sapendo (almeno se si è alpinisti si dovrebbe essere pienamente coscienti di questo) che spesso la vera causa della morte è solo un errore tecnico o di valutazione, diamo la responsabilità dell’accaduto alla fatalità o al destino solo perché è più facile ricominciare a scalare, voltare pagina, e ritornare al più presto in montagna.

E se fosse l’ultima? Quante volte prima di iniziare una scalata ci siamo fermati e abbiamo considerato questa possibilità?

Con grande professionalità e distacco riusciamo sempre a constatare il pericolo nelle ascensioni altrui ma non ci accorgiamo dei rischi che caratterizzano le nostre …

Shimshal Valley, 22 gennaio 2010

Metri cubi di pietre come proiettili mi passano sopra la testa. Sono aggrappato alle mie piccozze con l’ultimo chiodo posto molti metri sotto i piedi. Inerme, non posso far altro che guardare verso l’alto e sperare di non essere colpito.

Senza volerlo sono in guerra e lotto per sopravvivere.

Ho la certezza che da lì a poco sarò un uomo morto ma allo stesso tempo non voglio arrendermi e cerco di rimanere immobile, pronto a schivare ogni colpo, pronto a lanciarmi nel vuoto come ultima possibilità.

Vedo sopraggiungere una valanga di neve e detriti. Il mio sguardo si pietrifica. Stringo le piccozze ancora più forte, abbasso la testa in direzione dei piedi e aspetto che l’impatto mi travolga verso il basso, verso la morte.

Spesso ho sentito dire che quando si è certi di morire la vita ti passa davanti come un film con i suoi momenti più significativi… Sono tutte balle. In quel momento nella mia testa c’era posto solo per un pensiero: vivere. E mi chiedo: se non esiste la speranza di costruire un futuro che senso può avere questo presente o persino il mio passato?

Con la spietata volontà di chi lotta per la propria sopravvivenza, e con tutta la forza che ho in corpo, resisto alla valanga. Per un attimo tutto tace, tutto si calma. Il silenzio è rotto solo dalle urla dei miei compagni che mi invitano a scendere il più velocemente possibile. Tutto sembra finito. Avvito velocemente una vite nel ghiaccio ma senza successo. Un enorme boato suona la carica.
Alzo lo sguardo ed un enorme sasso, grande come una macchina, mi viene incontro.
Adesso sono sicuro.
Ora è proprio finita.
I brividi paralizzano il mio corpo. La lucidità che mi aveva accompagnato fino a quel momento sparisce.

Fortissime scariche di adrenalina mi impediscono di pensare. Mi avvicino più che posso alla parete di ghiaccio stringendo le piccozze più forte che riesco ed a occhi chiusi aspetto un colpo secco. Qualcosa mi sfiora, perdo l’equilibrio, un frastuono assordante accompagna l’ennesima scarica, un’altra slavina mi colpisce. Apro gli occhi e scendo di alcuni passi. L’incubo finisce. Sono ancora vivo.

Avvito un chiodo su una crosta di ghiaccio sulla mia sinistra e veloce raggiungo i mie compagni che con
istinto materno mi avvolgono tra le loro braccia e mi guidano verso la grotta che li ha protetti.

Non riesco a stare fermo. L’adrenalina pervade il mio corpo e nonostante tutto assumo un atteggiamento spavaldo; mi comporto come se niente fosse mai accaduto davanti agli occhi increduli dei miei compagni. Certamente alcuni di loro avranno pensato, con ragione, che fossi pazzo.

Passano alcuni minuti e la sensazione di vuoto mi riempie, ed in silenzio, confuso, raggiungo Shimshal.

Shimshal Climbing School: una scuola di speranza per le donne.

Nella storia dell’alpinismo Himalayano una costante accomuna tutte le spedizioni: il lavoro dei portatori.

Con grande professionalità ed impegno, e con modalità differenti a seconda delle esigenze, i portatori aiutano
a realizzare i sogni di tanti alpinisti e appassionati. Così com’è avvenuto sulle Alpi nel 1700, anche qui in Himalaya questo popolo di montanari, esperti e profondi conoscitori della propria terra, diventeranno i futuri professionisti della montagna, le future guide alpine.

E’ una storia che si ripete, alla quale si può contribuire, cercando in particolar modo di velocizzare questo processo, per consentire a tante famiglie Himalayane di vivere grazie al turismo di montagna.

Shimshal Valley, 23/25 gennaio 2010.

È la seconda volta che mi reco in Shimshal. La prima fu con Simone Moro nell’estate del 2008. Fu lui a coinvolgermi nel progetto della Shimshal Climbing School, una scuola d’alpinismo speciale, l’unica qui in Pakistan che permette la partecipazione attiva delle donne.

Dopo il grande spavento, abbiamo dedicato alcuni giorni a questa scuola con lezioni teoriche e pratiche su nodi, legature, ancoraggi e progressione su ghiaccio. Sono stati introdotti i nuovi materiali tecnici forniti da Kong, guardato filmati di montagna e grazie alla collaborazione del medico Marco Cavana sono state tenute lezioni su come riconoscere ed intervenire in caso di persone affette da mal di montagna.

Alle lezioni erano presenti più di 40 allievi. Dodici di questi erano ragazze sorridenti, dagli sguardi curiosi, con il viso di un color rosso acceso e le mani rovinate dal lavoro nei campi e dalle intemperie. Sedute davanti a me non potevo fare a meno di guardare incuriosito l’espressione dei loro volti mentre cercavano di capire l’uso dei friends.

Emozionato, ho provato un senso di tenerezza. Chissà, forse in un futuro prossimo, una di loro scalerà il K2 e scriverà così un nuovo capitolo nella storia dell’alpinismo Pakistano.

Il processo di emancipazione delle donne in Pakistan è avviato da tempo ma la realtà è ancora ben distante dal poter essere definita di parità. La maggior parte delle donne nella società pakistana è privata dei propri diritti fondamentali e una situazione di uguaglianza tra uomini e donne è per ora un miraggio.

Solo negli ultimi anni si possono intravedere dei cambiamenti concreti: le donne studiano, frequentano l’università e grazie alla Aga Khan Fondation, soprattutto nella regione del Baltistan Gilgit, le donne potranno assumere ruoli determinanti nel cambiamento di questo paese.

A 400 metri dalla cima.

Yasghil Valley, 01/02 febbraio 2010

Il termometro in tenda segna meno 22 gradi. Nei giorni passati il tempo è sempre stato brutto ma questa mattina la giornata è bellissima e l’aria è tersa, priva d’umidità. Nel nostro sacco piuma in silenzio ci godiamo gli ultimi minuti di tepore prima di dare inizio alla giornata.

Kris accende il fornello ed io la musica che dalle piccole casse portatili esce un pò distorta. Mangiamo una colazione leggera e usciamo dalla tenda dove Eneko è impegnato a fissare gli sci al suo zaino. Purtroppo Oscar non parteciperà a
questo tentativo alla vetta. In pochi giorni siamo passati dai 3000 m di Shimshal ai 5000 m di questo campo alto e la quota e sopratutto il freddo, hanno messo a dura prova le nostre condizioni di salute e Oscar è obbligato a scendere.

L’intensità del vento è calata ma fa ancora parecchio freddo. In queste condizioni è impossibile stare fermi se non per pochi minuti. Carichiamo sci e zaino a spalla e partiamo.

Dopo alcune ore raggiungiamo alcuni salti di roccia verticali che aggiriamo passando sulla destra, attraversando alcuni canali. Con Kris cerchiamo di fare la massima attenzione ma arrivati sul terzo colatoio, al nostro passaggio la neve instabile si stacca dalla cima delle rocce. Kris urla, e si sposta velocemente sulla sua destra vicino alle rocce.

Una slavina sfiorandoci passa esattamente dove pochi minuti prima sprofondavamo fino alla vita. Per fortuna Eneko è ancora distante e dunque fuori pericolo. Guardo Kris che con un cenno indica uno spiazzo al sole dove fermarci per aspettare Eneko.

Riflettiamo per alcuni minuti con lo sguardo fisso verso l’alto. Dobbiamo ancora superare due canali prima di raggiungere la cresta sommitale e poi la vetta ma le condizioni della neve non sembrano migliorare. A circa 400 m dalla cima in silenzio aspettiamo Eneko che al suo arrivo scandisce chiare parole che non lasciano speranze di
continuare:  “è troppo freddo, non sento più i piedi. Ragazzi, mi dispiace ma io devo tornare alle tende”.

Non so se siano state le parole di Eneko, la slavina o l’esser andato così vicino alla morte alcuni giorni prima, ma sta di fatto che molto serenamente, ho deciso di rinunciare ad andare avanti e subito dopo aver preso questa decisione mi sono sentito meglio con me stesso, più tranquillo e leggero.

A volte per migliorare e diventare più forte un alpinista non ha bisogno di allenamenti più duri, o montagne più difficili. A volte basta un’esperienza che ti costringe a riflettere e ti fa capire a chiare lettere che la vita è una sola, e che la rinuncia di oggi ti regalerà tante altre giornate in montagna domani.

Dentro il mio zaino, scendendo al campo base, ho qualcosa in più: una consapevolezza diversa, l’esperienza di una spedizione che mi ha fatto maturare sia come uomo che come alpinista.

Hervè Barmasse
The North Face Global Team

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