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15 Febbraio 2018

Alpinismo e Spedizioni · Vertical · Resto del Mondo

Simone Moro: “Voglio vivere i miei sogni, ma non morire per loro”. Moro e Lunger sulla via del ritorno dalla Siberia

Siberia. Arch. Tamara Lunger, Simone Moro

Si sta concludendo l’avventura di Moro e Lunger in Siberia. I due alpinisti sono finalmente a Yakutsk

Simone Moro e Tamara Lunger, dopo aver realizzato la prima salita invernale del Pik Pobeda (3.003 m ), la montagna più alta della Siberia nel Circolo Polare Artico, una delle zone più fredde al mondo. Il team ha finalmente raggiunto la città di Yakutsk, da dove prenderà il volo per Mosca.

Ieri Matteo Zanga, il fotografo che ha seguito la spedizione fino al villaggio nomade, ha postato su facebook un piccolo contributo indicando gli spostamenti in atto, ricordando i giorni trascorsi con gli allevatori nomadi e le notti passate in tenda a -40.

VAI AL VIDEO: LA GIOIA DI SIMONE E TAMARA IN VETTA AL PIK POBEDA

catena dei monti Cerskij,Siberia. Fonte: Simone Moro/facebook

 

Simone Moro: “Non ho bisogno del K2… Voglio vivere i miei sogni, ma non morire per loro”

In attesa dei racconti di Simone e Tamara, vi proponiamo alcune parti di una interessante intervista a Moro realizzata da Dagmar Steigenberger e Christian Portatori, per la rivista tedesca Bergsteiger.

Hai  detto una volta, “fino a 50, si può essere un buon scalatore”. Ora hai 50 anni. Qualcosa sta cambiando per te?
Simone Moro: ciò che cambia non è la motivazione. Ma la risposta del corpo a un allenamento duro e duraturo. All’età di 20 anni, si ritorna immediatamente alla vecchia forma dopo una pausa. A 45-50 questo è più difficile. Ho ancora sogni, ma forse non abbastanza anni per metterli tutti in pratica. Ecco perché uso la mia energia solo su progetti di cuore… Uno di questi è il mio lavoro di salvataggio con l’elicottero in Nepal. E la mia prossima spedizione sarà quest’inverno. Certamente non penso di smettere.

La tua preparazione è diversa ora?
Non smetto mai di fare esercizio. Quando torno da una spedizione, riposo per un massimo di una settimana. Quindi ricomincio ad allenarmi immediatamente. Non perché devo, ma perché mi piace farlo. Cammino molto – 100 a 150 chilometri a settimana – e salgo molto sul mio muro di arrampicata privato a casa. La mia forma fisica è ancora al livello di dieci anni fa…

Oggi faccio solo una spedizione all’anno e non due o tre. La mia prima spedizione fu nel 1992, da allora ho fatto 55 spedizioni. In un primo momento volevo raccogliere molte esperienze diverse in diverse regioni: l’Himalaya, il Karakorum, il Pamir, la Patagonia … Ora conosco questi luoghi e conosco me stesso ancora meglio. Non ho più in fretta come prima, non sono più così fanatico nel fare, per raccontare delle storie. Ormai ho già troppe storie da raccontare. Sono diventato un mentore e ora sto cercando di ispirare la prossima generazione.

Moro racconta cosa lo ha affascinato del celebre alpinista Reinhold Messner, a cui si è ispirato. “Era ed è una persona che può fare qualsiasi lavoro al medesimo alto livello…. È un uomo di cultura e un visionario… È capace di vivere i suoi sogni. Questo è ciò che ho imparato da lui: pianificare e portare avanti i miei progetti sempre in modo corretto. Puoi amarlo o odiarlo. Ma nessuno può dire che non possa fare altro che alpinismo.

Altri da cui Moro ha tratto ispirazione, sono stati gli alpinisti polacchi e i russi, tra cui Anatoli Boukreev, morto durante una spedizione con il bergamasco, travolto da una valanga. Simone parla di come quell’evento abbia cambiato la sua vita: “Ho avuto il privilegio di essere scelto come compagno di montagna da lui. Quello che è successo all’ Annapurna quando Anatoli è morto mi ha cambiato. Prima di tutto, è stata la prima volta che siamo partiti in tre e sono tornato da solo. L’ho visto morire e abbiamo lottato per sopravvivere: io sono caduto per 800 metri, a testa in giù su un altopiano a 1.500 metri sopra il campo base, ho dovuto risalire dal basso senza poter usare le mani…. –  Le mani di Simone si erano bruciate tentando di trattenersi alla corda durante la caduta. – Perdevo sangue dalle mani e dal volto da non riuscire a vedere nulla. Non avevo alcuna connessione con il mondo esterno. Nessuno sapeva dove eravamo. I villaggi erano deserti. È una lunga storia quella di come sono riuscito a sopravvivere.”

Con la morte di Boukreev,  Simone dice di aver perso il suo mentore: “Anatoli era come un fratello maggiore per me. Poi tutto è cambiato dovevo essere io il fratello maggiore e ho scelto Denis Urubko come mio nuovo socio in montagna. Avevo giurato che, come Anatoli mi aveva aiutato, volevo aiutare i giovani alpinisti in viaggio verso le grandi spedizioni. Così ho trovato Denis in Kazakistan, era senza casa, senza soldi e senza passaporto. L’ho invitato alla mia prima spedizione e ho cercato uno sponsor per lui. Ho assunto il ruolo di mentore… È stato un grande momento di crescita per me”

Come scegli i tuoi obiettivi?
“Non sono così affascinato dai record su parteti o su qualche vetta. Sono grandi risultati, ma non la mia motivazione. Voglio essere un ricercatore, un avventuriero del terzo millennio. L’alpinismo invernale è in grande parte questo. Ancora oggi, ci sono ottomila che nessuno ha scalato in inverno. Quando ho iniziato, erano sette, ed io ne ho fatti quattro. Ora solo più il K2.”

Ma Simone non sembra interessato a tentare il K2 in inverno: “Dopo la mia terza salita invernale, il Gasherbrum II, molti hanno scritto: “Dopo il G2 arriva il K2!” Mia moglie  in quel momento aveva sognato che sarei morto al K2. Mi ha detto, “Simone, non ti chiederò mai nulla per quanto riguarda l’alpinismo, solo una cosa: non andare al K2! Perché il mio sogno era troppo realistico…. Sento che morirai se tenti il K2 in inverno.”

“Onestamente – prosegue  Moro – non ho affatto bisogno del K2. Perché cosa significherebbe? Avrei cinque ascensioni invernali di ottomila anziché quattro, quindi? Quattro non sono comunque battibili. Allora preferisco fidarmi di mia moglie e cercare un’altra avventura.”

La sfida più grande, il “Nanga Parbat”

Simone Moro, 2016, invernale al Nanga Parbat. Foto: Tyrolia Verlag

Nel 2016, Simone Moro ha compiuto la prima salita invernale del Nanga Parbat, la nona montagna più alta del pianeta, dove poche settimane fa si è consumata la tragedia che ha visto protagonisti il polacco Tomek Mackiewicz e la francese Elisabeth Revol.

A proposito del suo atteggiamento nei confronti della morte Simone dice:“Prima o poi tutti dobbiamo morire. Abbiamo solo la libertà di decidere cosa vogliamo fare mentre viviamo. Ecco perché mi concentro nel fare le cose che scelgo nel modo più intenso possibile. Voglio vivere i miei sogni, ma non morire per loro.”

Ho visto morire molte persone perché non erano abbastanza prudenti. La domanda è: perché salgo le montagne? Cosa sto cercando lì? Sto cercando il successo? Il vertice come obiettivo? La mia risposta è “no”. L’obiettivo è l’esperienza che faccio lì in ogni fase del percorso. Per diventare una grande persona, un vincitore, devi imparare a diventare un perdente. Tutte le persone che pensano di dover vincere muoiono sempre prima o poi sulla montagna.

La sfida più grande per Simone è stato il Nanga Parbat. “L’ho provato quattro volte. Non è il più alto, ma la montagna più grande del mondo. Per arrampicarlo, devi scalare circa il doppio della distanza dal sentiero per l’Everest. Ho dovuto imparare molto per affrontare questo gigante. L’ho tentato da più parti, in stagioni diverse. Al quarto tentativo ero pronto – ero davvero innamorato di questa montagna. Se sei innamorato, non è solo attrazione fisica.”

Il Nanga Parbat è “una montagna che non puoi prendere d’assalto. Devi corteggiarla, bramare per lei, e aspettare di vedere se ti accetta. Non era una lotta tra me e la montagna. Volevo arrivare in cima per baciare questa donna, questa montagna. Non dimenticherò mai quel momento in cima: era già tardi, le tre e mezza del pomeriggio, ed ero così stanco. Per prima cosa ho visto il K2, a 300 chilometri di distanza, poi la linea curva dell’orizzonte. La salita al Nanga Parbat è stata probabilmente l’esperienza in montagna più intensa che abbia mai avuto.”

Simone Moro e Denis Urubko. Foto arch. S. Moro

Simone, da qualche anno, non fa più spedizioni con Denis Urubko. Spiega: “Ora va per la sua strada, e questo mi rende felice. Spero solo che non ritorni ad essere il Denis Urubko che ho incontrato la prima volta: senza alcuna paura, con un atteggiamento patriottico per l’alpinismo e disposto ad affrontare qualsiasi rischio per la vetta . Questa è l’unica cosa che mo spiacerebbe. Ma siamo in buoni contatti. E poi, ho trovato un nuovo compagno di cordata montagna: Tamara Lunger….  Tamara è fisicamente forte come Denis o Anatoli.”

“Tamara è davvero un Caterpillar…Se sono in pericolo e ho bisogno di aiuto, so che è capace di quello che poche persone al mondo possono permettersi di fare. Secondo, è molto positiva…..”

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Tamara Lunger e Simone Moro in tenda sul Nanga Parbat. Foto: Tyrolia Verlag